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March 28 2019
Le prime voci su un progetto del fondo Elliott di dotare il Milan di uno stadio di proprietà risalgono all’inizio dello scorso autunno. L’Inter era pronta da tempo, anche se più interessata alla permanenza a San Siro. A novembre i due club hanno firmato un’intesa impegnandosi a restare insieme in un impianto condiviso e a sciogliere nell’arco di qualche settimana il quesito se farlo a San Siro ristrutturato oppure procedendo a una nuova costruzione.
Le settimane sono diventate mesi, ma alla fine il nodo è venuto al pettine. La valutazione di costi e benefici dell’impresa stanno spingendo Inter e Milan, Suning ed Elliott, verso la scelta della soluzione più drastica, ovvero la realizzazione di un nuovo stadio di terza generazione a poca distanza da quello esistente prevedendo poi l’abbattimento dello stesso.
Che l’idea di demolire un monumento come San Siro possa non piacere a tanti è fisiologico e anche bello, considerato il carico di storia e fascino che si porta dietro. Dunque il dibattito può e deve prendere corpo, a patto che la politica resti lontana dalla tentazione di inseguire il consenso perdendo di vista la realtà.
Sei mesi dopo le prime voci sull’esistenza di un piano ‘Nuovo San Siro’, improvvisamente il sindaco di Milano, Beppe Sala, si è ricordato di gettare sul tavolo della discussione un argomento di non poco conto. Ha detto, in sostanza, che Inter e Milan sono libere di fare quello che vogliono ma che lui preferirebbe la ristrutturazione di San Siro e che, in ogni caso, se anche dovessero tirare dritto per la loro strada alla fine del processo dovranno prevedere il trasferimento della proprietà del nuovo impianto al Comune.
Certo, con lunga concessione, accordi ad hoc eccetera eccetera… Però senza che Inter e Milan possano avere uno stadio patrimonio loro. Poi il sindaco Sala se l’è presa con il “buffo” della comunicazione di questi tempi moderni, accusandola di “distorcere la realtà”.
Ora, la vicenda è complicata come ogni grande opera da centinaia di milioni di euro ma al tempo stesso semplice nella lettura. E’ difficile comprendere come un sindaco, pur nell’esercizio legittimo della tutela dell’interesse pubblico, possa uscirsene alla vigilia della svolta ponendo una condizione che rischia di far minare il progetto dalle fondamenta.
Più che una presa di posizione da amministratore, assomiglia al primo atto di una ‘vietnamizzazione’ della questione San Siro. Una guerra di trincea fatta di atti, parole, precisazioni, cavilli, delibere, salti avanti e improvvise frenate che l’Italia (intesa come sistema Paese) conosce fin troppo bene.
Se così fosse, sarebbe non accettabile. Qual è il nodo? Il timore di perdere consenso nel diventare il sindaco o la forza politica che hanno autorizzato la rottamazione di San Siro? Oppure la considerazione che lo stesso è un bene che produce affitti milionari per il Comune?
Qualora si trattasse della prima cosa, sarebbe grave perché vorrebbe dire rinunciare a qualsiasi valutazione nel merito in nome di qualche sondaggio o di una scadenza elettorale che si avvicina. Fosse la seconda, invece, l’opera di ‘vietnamizzazione’ coprirebbe in maniera un po’ ipocrita una posizione di tutela estrema dell’interesse pubblico senza avere il coraggio di dire apertamente che si mette il veto a una scelta di crescita dei due club milanesi.
Dunque la conclusione può essere solo una e parte dall’esperienza dolorosa che sta vivendo la Capitale alle prese con il calvario del progetto della Roma. Se la politica milanese, a tutti i suoi livelli e in tutte le sue colorazioni, ha deciso che Inter e Milan devono stare a San Siro ristrutturandolo anche se nelle loro analisi la soluzione giusta è quella del nuovo impianto, che venga detto subito. Senza perdere tempo e assumendosi la responsabilità delle proprie scelte e della propria posizione.
Non ci sono alternative. Non c’è più tempo da perdere per due brand mondiali che stanno provando a tornare grandi. Altrove il sistema è stato trovato (vedi formula con cui la Juventus ha potuto abbattere e ricostruire il Delle Alpi) tutelando anche il bene pubblico. Milano merita non solo due squadre competitive ma anche, soprattutto, una classe dirigente che non metta l’elmetto per andare in trincea senza il coraggio delle proprie decisioni.