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November 26 2018
Nel processo di beatificazione permanente di Roberto Saviano qualche voce dissonante si è alzata anche da sinistra. Per esempio Giorgio Bocca, scrittore, giornalista ed ex partigiano (di cui Saviano ha ereditato la rubrica su L’Espresso, l’Antitaliano) sette mesi prima di morire, nel maggio 2011, lo straccia così: «Mi sta sui coglioni, però è bravo. È un esibizionista, un attore, si mette lì, con la barba lunga. È uno che recita il suo personaggio, gli piace fare il carbonaro, il perseguitato» eppure, «non fa altro che andare in giro a fare conferenze». Per Bocca, Saviano ha il difetto tipico degli intellettuali: «Quello di credersi i salvatori del mondo». Lo boccia pure come scrittore: «A me i suoi libri danno noia perché sono barocchi (...) io sono piemontese e lui è napoletano. Questa è la differenza».
Altrettanto duro con Roberto è don Aniello Manganiello, l’ex parroco di Scampia che ha sfidato la camorra e che per questo motivo è finito nella lista dei «morituri» del clan Lo Russo. Dice a Panorama: «Io la scorta l’ho rifiutata, sarebbe stata una presa per i fondelli dei miei parrocchiani. Da un lato li esortavo a contrastare la camorra, a superare la paura e ad avere coraggio, e dall’altro mi facevo proteggere?». Il «don», al quale volevano sparare alle gambe e tagliare la gola, archivia così Saviano e la sua epica: «Una parte dell’editoria e della politica ne ha fatto un mito, ma per me è un burattino che stanno utilizzando per fare ricavi e ottenere consenso. A mio parere, non ha niente da insegnare a nessuno».
La scorta, al contrario di don Manganiello, Saviano non l’ha rifiutata. Col tempo, anzi, si è accresciuta. Su una delle due auto blindate che da anni lo accompagnano c’è sempre uno Spas12, un fucile mitragliatore d’assalto, come riportato dal Corriere della Sera del 24 dicembre 2008.
Il fatto che Saviano sia in pericolo di vita è messo in discussione dalle parole dello stesso scrittore. In particolare, dal suo racconto a Salman Rushdie, durante un incontro pubblico a New York dedicato alle reazioni dei clan all’uscita di Gomorra: «I camorristi se lo regalavano tra loro, contenti che si raccontassero le loro gesta». E, secondo Saviano, avevano persino iniziato a farne «copie taroccate da vendere in strada». Una domanda viene spontanea: ma i malavitosi non avevano paura di quel libro? Sia come sia, a chiedere la scorta per lui dopo che ebbe presentato Gomorra a Casal di Principe, nel settembre 2006, fu il prefetto di Caserta in persona, Maria Elena Stasi. La signora è stata deputata del Popolo delle libertà, molto vicina a Nicola Cosentino, potente ex sottosegretario all’Economia condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, e coinvolta in un paio di procedimenti penali legati alla camorra casertana. La Stasi è stata assolta in uno, ma condannata a due anni e prescritta nell’altro (e oggi è in attesa del giudizio d’Appello).
Nei racconti ufficiali, Roberto viene descritto in perenne fuga da killer implacabili della camorra e ai giornalisti che lo incontrano è vietato rivelare il nome della località in cui si trova. Eppure, appena c’è un libro in uscita, lo scrittore sulla sua pagina Facebook annuncia il programma delle presentazioni e degli spostamenti. Con tanto di date e orari. Non è un controsenso? Se c’è il pericolo che la camorra voglia ucciderlo, se gli alberghi dove alloggia sono top secret, perché mettere a rischio anche i suoi lettori per un motivo squisitamente commerciale? Non tutti, però, sono dello stesso avviso. Nel 2011, la Metropolitan police di Londra si è rifiutata di assegnare la scorta a Saviano in occasione di un premio internazionale ritenendola non necessaria. Lui, offeso, non è andato a ritirare l’onorificenza.
Circondato dai carabinieri
Una scorta come quella di Saviano impegna dieci carabinieri(cinque per due turni di sei ore e 40 minuti al giorno) che diventano almeno 15 a rotazione in un mese, se si considerano i riposi settimanali, i permessi e le licenze. Ogni unità costa allo Stato poco meno di 40 mila euro lordi l’anno (esclusi straordinari e indennità di missione che sono liquidati a parte). Significa 400 mila euro ogni 12 mesi. Ovvero quasi 4 milioni nell’ultimo decennio. E questo senza considerare le spese accessorie per benzina, pedaggi, trasferimenti in aereo e manutenzione delle auto blindate, che fanno, ovviamente, crescere moltissimo il conto.
Chi lo accompagna, spesso, non conserva una buona opinione dello scrittore. Panorama ha parlato con alcuni dei suoi angeli custodi e questi lo giudicano un po’ arrogante e scontroso. In auto strepita e usa toni e linguaggio sopra le righe. Ma quando scende dall’auto indossa la maschera dell’agnello. È anche capitato che chi lo scortava gli facesse da cameriere, riempiendogli il piatto al ristorante mentre lo scrittore discuteva con l’ospite di turno, secondo quanto ha scritto il Corriere della sera del dicembre 2008.
Leggi la prima parte dell'inchiesta di Panorama: Saviano, i segreti di una "star"
CATTIVI MAESTRI, PESSIME INTENZIONI
Nonostante le forze dell’ordine siano diventate un po’ la sua famiglia, il giovane Saviano aveva svelato al mondo di subire il fascino della lotta armata. Lo scrittore aveva infatti espresso posizioni eversive durante un importante convegno rimasto agli atti di Radio Radicale.
L’incontro si tiene nel 2000, all’Università Federico II di Napoli, dove Saviano studia filosofia. Da pochi mesi è stato assassinato il giuslavorista Massimo D’Antona. Davanti a giornalisti, storici, politici e magistrati l’allora studente Saviano chiede la parola e si lancia in un’imbarazzante apologia dell’eversione (sentire per credere sul sito): per lui i terroristi «erano la parte sensibile di un grande movimento operaio che si sentiva tradito dal Pci», partito che con la sua scelta socialdemocratica aveva disatteso «le aspettative rivoluzionarie». Quindi i terroristi avrebbero preso le armi per «portare avanti questo progetto che era stato tradito dal Pci».
Roberto, dopo aver ricordato al suo uditorio che «la rivoluzione si fa con il fucile» e che il capitalismo e le sue crisi sono l’origine di tutti i mali («generano e genereranno rivoluzioni e di nuovo colpi di fucile nel futuro immediato»), fa un ragionamento spericolato: «La polizia sparava per le strade, la polizia uccise Francesco Russo, Giorgiana Masi, quindi la polizia era armata. Chi faceva resistenza doveva armarsi (…). In fondo non è che un magistrato, un poliziotto, un politico, fanno qualcosa di più lecito, se parliamo di etica, di quello che fa un rivoluzionario sparando». È un parallelismo che gela la sala o per lo meno i relatori. Ma Saviano ci tiene a rimarcare di non stare «dalla parte della magistratura, dalla parte di chi in qualche modo rivendica le radici democratiche di chi ha sconfitto il terrorismo», colpevole solo di aver cercato «di generare un processo rivoluzionario non ancora maturo».
Quattro anni dopo, nel febbraio 2004, Saviano sottoscrive un appello di Valerio Evangelisti, direttore del sito Carmilla, in favore del terrorista rosso Cesare Battisti, latitante dal 1981. Una firma che Saviano ha poi ritirato nel 2009, giustificandosi da par suo: «La mia firma è finita lì per chissà quali strade del web».
Di recente, infiammato dalla vicenda di Domenico Lucano, il sindaco di Riace, Saviano ha rispolverato l’antica posa da molto discutibile maestro: «Quando l’ingiustizia diventa un crimine, la resistenza diventa un dovere» ha declamato. «Dobbiamo mettere il nostro corpo a difesa di Mimmo Lucano (...) A chi tra i più giovani mi ascolta chiedo di potersi attivare non soltanto sui social, importante, ma per strada, in qualsiasi luogo (...) ricordatevi: mai inchinati, mai piegati, mai spezzati».
UNA FOTOGRAFIA DI CLASSE
Saviano è un giovane come tanti. In una puntata delle Iene ha confessato di aver fumato canne e, sorridendo, di non disdegnare affatto le emozioni forti dei film porno («L’ultimo l’altro ieri»). Non solo: ha ammesso di essere, col tempo, «peggiorato come persona». E a scuola non andava neppure tanto bene. Eppure i suoi agiografi tramandano che fin da piccolo abbia esibito doti intellettuali non comuni. A otto anni avrebbe letto l’Odissea, a 17 nientemeno che il Capitale di Karl Marx. Compagni e professori di scuola hanno ricordi un po’ diversi: «Non era troppo brillante» rammenta il segretario amministrativo del liceo Diaz di Caserta, Pierino Bosco. Alla maturità ottenne un punteggio poco superiore alla sufficienza, 42. Ottimi voti in italiano, ma pessimi nelle materie scientifiche e in tedesco. «Gli ho messo anche un 3 e qualche 4, non era particolarmente ferrato» ricorda il docente di matematica, Luciano Antonetti. Sul suo banco c’erano scritte e slogan contro la Chiesa e gli Stati Uniti, però Roberto era orgoglioso del suo giubbotto verde della squadra di basket dei Boston Celtics e qualcuno lo trovava incoerente. All’epoca aveva i capelli ricci e lunghi. Girava col Manifesto sottobraccio: con il quotidiano comunista riuscì addirittura a collaborare grazie all’intercessione dell’allora assessore regionale di Rifondazione comunista Corrado Gabriele e del suo addetto stampa. All’Unità, il suo nome venne, invece, suggerito da Isaia Sales, esperto di camorra, politico del Pds, ed ex sottosegretario nel primo governo Prodi.
«Anche se gioca a fare il self-made man» spiega Marco, un amico di infanzia «Roberto viene da una famiglia della buona borghesia. A Caserta viveva in un parco residenziale tra i più belli della città, di fronte alla Reggia». Grazie ai parenti ha ricevuto anche qualche spintarella. Per esempio, nel 2006, il suo primo lavoro da impiegato alla Mec San srl di Maddaloni è arrivato grazie alla raccomandazione dello zio Michele. Il titolare dell’azienda, Vincenzo Santangelo, non lo ha dimenticato: «Roberto? Lavorava da noi nell’ufficio pianificazione. Quando l’ingegner Michele Saviano andò in pensione, gli facemmo un contratto di collaborazione e lui ci presentò Roberto».
Fra «Torah» e cabala
La famiglia di Saviano si compone dello scrittore, dal fratello Riccardo, un po’ più piccolo, e dai due genitori, divorziati da qualche tempo. Riccardo, oggi, fa il fotografo al seguito del celebre congiunto. La madre è citata dal figlio col nome ebraico di «Miriam Haftar», ma in realtà si chiama Maria Rosaria Ghiara, ed è docente di scienze all’Università Federico II di Napoli oltre che direttore del polo museale dell’ateneo. Nei racconti pubblici e privati, Roberto fa quasi esclusivamente riferimento a lei, chiamandola «severa professoressa», come se il padre non esistesse. E, in effetti, fin dal liceo, il rapporto con lui è stato conflittuale. Ne parla male persino agli insegnanti. Come conferma a Panorama il professor Antonetti: «Diceva che non lo poteva vedere perché aveva lasciato la madre».
La famiglia Ghiara è di origine ligure, ma si trasferì nel Dopoguerra a Trento dove nacque la signora. Dalla professoressa, Roberto dice di aver ereditato il sangue ebraico oltre che l’orientamento di ultrasinistra. Tuttavia, né i Saviano né i Ghiara risultano iscritti alla comunità ebraica di Napoli. A iniziarlo all’ebraismo è stato nonno Carlo, ufficiale dell’Aeronautica: «mi ha insegnato la Torah», ha precisato Saviano. Il 24 settembre 2007, a un giornalista del quotidiano Haaretz, Saviano ha rivelato di avere radici sefardite e di essere stato «molto colpito da Sabbatai Zevi», cabalista del Settecento, ma di non aver «voluto pubblicizzare la cosa» perché «in Italia passerebbe per qualcosa di esoterico». Uno degli anelli che porta al dito (venduto a 114 euro da un gioielliere di Tel Aviv come «Anello di Saviano - Ring of courage») riporterebbe un’iscrizione ispirata alla Cabala; questo sebbene uno studioso, Dario Borso, abbia detto a Panorama che più prosaicamente è una citazione del romanzo di fantascienza Dune di Frank Herbert.
All’università di Roma il 17 dicembre 2008, Saviano ha sfoggiato altri tre anelli, «uno a sinistra, due a destra», secondo la moda delle paranze di fuoco dei clan. «Sono tre anelli come il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Così facevano dalle mie parti, così faccio io» ha dichiarato a un cronista.
Le sue radici partenopee sono quelle del padre Luigi, medico di famiglia in pensione, originario del comune di Frattamaggiore, Napoli. Nei primi anni del Duemila, finisce in un’inchiesta della procura di Napoli insieme a un’altra ventina di colleghi accusati di aver falsificato ricette mediche per truffare il Servizio sanitario nazionale. Si difende sostenendo che è tutto un equivoco, frutto di uno scambio di persona, ed esce dal processo accettando la prescrizione. Fino a 28 anni, ha giurato il papà in un’intervista alla Stampa, Roberto non gli ha mai fatto neanche gli auguri per il compleanno e in Gomorra lo cita in un’unica occasione, presentandolo mentre gli regala una pistola per insegnargli a sparare. Tutta scena, si difende il genitore, il quale, al contrario della moglie, per tutta la vita avrebbe votato Dc.
Ma intorno a Saviano e alla sua abilità con le armi fioriscono aneddoti e fole. Molti credono di averlo riconosciuto in un passo del recente saggio Armatevi e morite di Carmelo Abbate e Pietrangelo Buttafuoco, là dove scrivono di «un tutelato h24 che la passione per le armi ebbe a pagarla». Secondo gli autori, un giorno questo «amante delle sparatine», per darsi un tono, si calò la pistola nella cintola dei pantaloni, facendo partire un colpo: «E fu pum! Per fortuna solo sul popò».
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