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May 04 2023
La scuola italiana ha mille problemi, alcuni ormai radicati nel tempo e altri invece sempre nuovi, così non è difficile lamentarsene, protestare e chiedere novità per invertire la rotta di un sistema appesantito, vecchio e incapace di risollevarsi.
Il rischio, in questi casi, è sempre quello di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Intendiamoci quindi: la scuola italiana si fonda su elementi che la connotano, e tra questi prevalgono il lavoro svolto in classe con un docente in presenza, le attività di studio e di esercizio assegnate per casa da svolgere in autonomia o comunque in preparazione alle lezioni successive, e infine la valutazione di ciò che ogni studente sa e sa fare, in una scala dallo 0 al 10.
Senza questi elementi, non è più scuola.
Una lezione online, da remoto, registrata o in diretta, in DaD - lo abbiamo provato sulla pelle - può essere un rattoppo utile in un’emergenza, ma non è in alcun modo sostitutiva di una lezione svolta in presenza, “qui e ora”, nella stessa stanza. Fare lezione insieme significa condividere materiali, sguardi, sorrisi e disagi, libri e strumentazioni, caldo e freddo, lezioni che si susseguono e accordi per svolgere un lavoro condiviso. In una parola, esserci per fare esperienza anche con il corpo di ciò che è insegnato da chi è in cattedra, il maestro, vale a dire colui che sa di più (dal latino magister, a sua volta da magis che significa “di più”). Eppure c’è chi sostiene che le lezioni in aula debbano essere “implementate” (sic!) sempre più con interventi a distanza più strutturati.
In secondo luogo c’è il lavoro assegnato per casa: non tutti i sistemi scolastici sono costruiti in modo tale da prevedere del tempo condiviso prima e del tempo dedicato al lavoro autonomo poi, il sistema italiano invece punta sulla responsabilità e sull’autonomia dello studente il quale ogni pomeriggio, in sintesi, dedichi del tempo per preparare le lezioni della mattina successiva. E’ una caratteristica identitaria, impegnativa per tutti, dibattuta e sempre più avversata.
Infine, il tema caldo di questi giorni, la valutazione. La scuola non è riducibile a valutazioni e voti, così come uno studente non è un numero, però il linguaggio della scuola prevede che si valuti numericamente quanto ogni studente sappia di un argomento o di un processo: quanto lo sappia raccontare, quanto lo sappia trattare, quanto sia in grado di parlarne, quanto di scriverne.
Non è questione di selezione, di vita vera fatta di scale a cui questa generazione deve abituarsi perché “poi arriveranno le sberle della vita”. No, niente di tutto questo. La valutazione è utile perché è uno strumento – sia chiaro, non certo una clava! – per capire cosa va e cosa no, cosa stia andando bene e cosa invece no. In sé, la valutazione non dovrebbe generare disagio, ma preoccupazione, vale a dire un insieme di occupazioni necessarie prima della prova di verifica per fare in modo che si arrivi preparati. Dopo di che, se la valutazione fosse insoddisfacente, ci sarà ancora tempo e modo per recuperare, capire nuovamente, o finalmente, rimettersi alla prova, senza fretta, ma con metodo. La valutazione è un disagio se è il fine della scuola, ma non lo è, poiché è solo un indicatore utile per migliorare il lavoro di ognuno e di tutti. Se non fosse così, allora servirà investire su come valuta chi è preposto a farlo e su come viene accolta la valutazione da chi la riceve, studenti e famiglie in questo caso. Altrimenti si corre il rischio di eliminare uno strumento per non fare la fatica di saperlo usare e, se fosse necessario, di metterlo a punto e renderlo migliore. Cosa che è invece necessario approfondire, sempre, perché valutare è difficile e delicato, così come è difficile e necessario spiegare una valutazione, proprio per evitare incomprensioni, chiusure, disagio.
Questi tre assi cardinali per la nostra istruzione danno vita a un sistema imperfetto, non nuovo, ma che non rappresenta il male della scuola. Noia, carenza di personale, motivazioni carenti, edilizia fatiscente e ambienti vecchi nonché solamente risistemati per superare un controllo formale o per una foto utile per un Open Day: questi sono alcuni dei mali che affliggono la scuola italiana.
Certo è molto più facile puntare il dito verso i voti, verso i compiti a casa assegnati e magari controllati a campione, o non controllati (avviene anche questo), anziché rifondare la scuola partendo da ciò che funziona: i saperi da acquisire in un luogo condiviso e che permetta di creare legami, la scommessa dell’autonomia nell’organizzazione e nell’apprendimento pomeridiano da parte di chi sta imparando, l’accettazione di una valutazione che restituisca un quadro difficile da accettare, ma reale, oppure generoso, oppure ancora inesatto, provvisorio, da comprendere. Sarebbe bello ripartire da queste basi condivise e poi rinnovare un modello, ridiscutendo i corsi e i piani di studio alla ricerca di una scuola interessante e non stressante, impegnativa e non stancante, formativa e non noiosa, arricchente anziché sfibrante, sicura non più precaria. Insomma, tutta nuova.