Michele Saponara e Enrico Maria Mancuso (Imagoeconomica)
Politica

Separazione delle carriere, un rebus politico-giurisdizionale

Terreno di scontro per eccellenza, quello della separazione delle carriere dei magistrati ritorna puntuale ad ogni cambio di governo, quasi a dettarne l’agenda politica. Come noto magistrati requirenti (i Pubblici ministeri) e magistrati giudicanti (quelli chiamati a pronunciare le sentenze) nascono dallo stesso concorso e affidano al Csm l’intera carriera, dai trasferimenti ai procedimenti disciplinari. Dunque i magistrati si distinguono soltanto per la funzione che praticamente esercitano, permettendo di attuare l’insegnamento della nostra Costituzione che fonda su autonomia eindipendenza la ragione stessa del potere giurisdizionale. La separazione delle carriere come scelta radicale e definitiva tra le due funzioni verrebbe quindi a marcare definitivamente la scelta giurisdizionale. Le funzioni sono piuttosto rigidamente separate, e lo sono ancor di più a partire dalla riforma Castelli del 2006, che ha reso il passaggio dal ruolo di Pm a quello di giudice e viceversa parecchio scomodo e quindi poco ambìto, tanto da renderlo marginale. Ma non secondario dal punto di vista politico: infatti sono state presentate quattro proposte di legge costituzionali per rilanciare la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Depositate nei giorni scorsi alla Camera, e presentate ieri in una conferenza stampa, da Lega, Forza Italia e Terzo polo (Azione e Italia Viva). Le proposte, che riprendono il testo di riforma costituzionale su cui nel 2017 l’Unione delle camere penali raccolse le firme di oltre 70 mila cittadini, rappresentano una netta accelerazione su uno dei temi più spinosi dell’organizzazione giudiziaria e da sempre fonte di tensioni tra politica e magistratura.

Panorama.it ha chiesto lumi all’avvocato Michele Saponara, presidente emerito dell’Ordine degli avvocati e della Camera penale meneghina e al professore Enrico Maria Mancuso, ordinario di diritto processuale penale alla cattolica di Milano.



Saponara, ex presidente Camera penale di Milano: «L’indipendenza della magistratura ne uscirebbe rafforzata»

Avvocato Saponara, ci risiamo con il tema della separazione delle carriere dei magistrati.

«E’ considerato un tabù dalla magistratura. Venne in realtà affrontato, in tempi non sospetti, da Giovanni Falcone, magistrato di grande esperienza ed equilibrio. E’, invece, un cavallo di battaglia dell’avvocatura ed in particolare delle Camere penali che negli anni passati si batterono per il referendum che purtroppo non raggiunse il quorum. Ma gli avvocati penalisti non hanno desistito e all’inizio della legislatura precedente riproposero il tema con legge di iniziativa popolare. La novità è che adesso, a quanto pare, il governo Meloni sembra seriamente impegnato ad attuare tale riforma entro il 2025».

Come avverrebbe questa separazione?

«Ci sono varie idee: quella più ricorrente è di creare due corpi separati di magistrati, quelli del Pubblico Ministero e quelli del giudicante, ciascuno dotato di un proprio Consiglio Superiore della magistratura come organo autonomo».

Per alcuni rafforzerebbe l’indipendenza della magistratura, per altri ne lederebbe le basi stesse.

«L’indipendenza della magistratura ne uscirebbe potenziata: in quanto avremmo due ordini completamente indipendenti ma senza che una magistratura appaia preponderante rispetto all’altra, cosa che avviene oggi in quanto la crescita ed il rilievo mediatico delle indagini preliminari esaltano il potere del Pubblico ministero a scapito non solo della difesa ma finanche dello stesso giudice. Con la conseguenza ulteriore che i pm assumano ruoli rilevanti all’interno delle correnti e possano condizionare i giudici all’interno dei comuni organismi, ovvero consigli giudiziari e Consiglio superiore della magistratura».

Per lei la separazione rafforzerebbe l’indipendenza dei magistrati, allora.

«Ristabilire l’equilibrio tra le due magistrature gioverebbe all’immagine della magistratura in generale: senza dimenticare che, finalmente, troverebbe attuazione l’art. 111 della Costituzione secondo cui ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizione di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale».

Lei è stato un avvocato di grido, con incarichi politici in un periodo complesso della nostra storia recente, quello tra le stragi palermitane e Tangentopoli.

«Da giovane mi occupai di un processo di mafia (il sequestro del Conte Luigi Rossi di Montelera, tra il 1973 e il 1974, ad opera di una banda di siciliani che faceva capo a Luciano Liggio) nel corso del quale, sebbene non fosse stato ancora modificato l’art. 111 della Costituzione, toccai con mano come i pm ed i giudici svolgessero il loro compito senza alcuna interferenza. Quest’ultima, invece, è stata evidente negli anni di Tangentopoli, qui a Milano, provocando quasi la sofferenza del giudice al confronto del pm. Anche ricorrendo ad uno stratagemma».

Ci faccia capire!

«La Procura aveva istituito un solo numero di fascicolo per i tanti procedimenti di modo che tutti venissero affidati sempre allo stesso giudice per le indagini preliminari. Che accoglieva, pressoché sistematicamente, le richieste dei pubblici ministeri. La Procura milanese poteva praticamente contare su un unico Gip già saggiato nelle sue importanti decisioni, per alcuni già “direzionato”, senza correre il rischio di un continuo confronto con altri giudici afferenti all’Ufficio, e quindi di altri orientamenti che si sarebbero potuti formare all’interno dell’Ufficio Gip del Tribunale che pure poteva contare su una ventina di magistrati».

La Procura in tal modo proteggeva le sue indagini?

«Evitando e prevenendo che la pericolosa variabilità decisionale dei giudici potesse rappresentare un intralcio alle indagini, costringendo chi le conduceva a confrontarsicon punti di vista diversi».

E come era possibile tutto ciò?

«Il Pool escogitò un trucchetto numerico: quando venne arrestato Mario Chiesa, il 7 febbraio del 1992, venne aperto un fascicolo di indagine che in realtà non era tale, visto che recava un numero di registro che raccoglieva molteplici indagati, anche per vicende diverse tra loro, unificati solo dalla circostanza di essere coordinati tutti dal Pool. E cosìil numero di ruolo con cui i magistrati inquirenti iscrivevano qualsiasi novità che riguardasse indagini sulle tangenti nella Pubblica amministrazione era sempre lo stesso, il 865592, quello originario dell’inchiesta sul Pio Albergo Trivulzio. Quel fascicolo veniva utilizzato quasi a piacere per ogni indagine successiva».

Le regole nella sostanza dovevano essere ben altre…

«Assolutamente, ovvero che ad ogni notizia di reato fosse attribuito un numero preciso e che ad ogni numero seguisse la competenza di un Gip non individuabile a priori, quindi diverso. Invece l’espediente dell’unico numero impediva la naturale rotazione e rendeva possibile che quell'unico Gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, ovvero il dott. Italo Ghitti, continuasse a rappresentare l’Ufficio del Gip, soddisfacendo le aspettative del Pool».

Un corto-circuito giudiziario?

«A distanza di anni mi rendo conto che quel meccanismo non si sarebbe verificato se i giudici e i pubblici ministeri fossero stati separati tra loro. Per la cronaca sono stato il primo a denunciare pubblicamente gli abusi, addirittura durante un convegno della Associazione nazionale dei magistrati, scontrandomi con l’allora procuratore capo Francesco Saverio Borrelli e provocando una inchiesta disposta dall’allora Ministro della Giustizia Filippo Mancuso. Ovviamente non basta la legge ma occorre la competenza, l’autorevolezza e l’etica del magistrato per rendere effettiva la tanto chiesta separazione».

Mancuso, Università Cattolica: «Puntuale ad ogni cambio di governo, il tema ha origini politico-ideologiche»

Professore Mancuso, torna in auge il tema della separazione delle carriere…

«Attendevamo questo cavallo di battaglia delle riforme anche con il nuovo governo. In realtà, il progetto di legge di iniziativa parlamentare presentata dall’On.leEnrico Costa ripropone la proposta di modifica della Costituzione di iniziativa popolare promossa dalle Camere penali nel 2017, già ripresentata nella scorsa legislatura. Si tratta, in pratica di una proposta-modifica della Costituzione già oggetto di preliminari riflessioni e valutazioni; essa non è tuttavia mai approdata a una discussione parlamentare vera, essendosi fermata in sede consultiva. Non vi è mai stato un sufficiente appoggio parlamentare».

Ma di cosa si tratta?

«Il punto di partenza nella riflessione è il seguente: si tratta di una riforma imposta dalla Costituzione, imposta dalle norme sul “giusto processo” ex art. 111 Cost.? Quelli che sostengono questa teoria dicono si tratti di una riforma necessaria per dare attuazione alla c.d. “terzietà” del giudice. A ben vedere, tale terzietà può essere garantita anche solo mediante la separazione delle funzioni, cioè senza separare le carriere. Lo ripeto: credo sia un problema culturale, di cultura della giurisdizione, di ideologia del diritto».

Forse perché in passato non sono mancati i casi di commistioni tra funzioni inquirenti/requirenti e giudicanti

«Lo sappiamo bene, ma ciò accadeva prima della riforma dell’Ordinamento giudiziario che, invece, rende più difficile, oggi, il passaggio dalle funzioni inquirenti a quelle giudicanti e viceversa; dati alla mano, chi inizia esercitando la funzione inquirente non sceglie di frequente il passaggio alla funzione giudicante. Gli anni del Pretore, del Giudice istruttore sono passati: oggi il sistema si è dotato dei necessari anticorpi per poter fronteggiare i rischi che quella commistione di funzioni recava con sé».

La problematica avrebbe allora sfumature politico-ideologiche…

«I nuovi magistrati si sono quasi tutti formati sotto la vigenza del nuovo codice di procedura penale, il codice c.d. Vassalli del 1989; la cultura della separazione delle funzioni è insita nel loro Dna. Sotto il vigore del vecchio codice, il c.d. codice Rocco del 1930, l’idea di un dialogo tra le funzioni era considerata una normale dialettica, al netto dei periodi emergenziali che il sistema ha vissuto. Oggi quelle sfumature non esistono più».

Oggi a lezione come presenterebbe il tema ai suoi studenti?

«L’aumento degli studenti a lezione è segno di un rinnovato interesse per la giustizia penale. Farei loro presente che la separazione delle carriere determinerebbe la creazione di due ordini autonomi, indipendenti e speculari: due percorsi di vita professionale e di esercizio delle funzioni separati, "a compartimenti stagni". In effetti chi propugna la separazione delle carriereintende raggiungere proprio questo risultato. Una cesura foriera di un rischio: siamo sicuri che la separazione delle carriere, se non accompagnata da un percorso di crescita culturale delle funzioni giudiziarie, non si risolva in una classificazione tra carriere di serie A e di serie B?».

In sintesi: separazione delle carriere e delle funzioni?

«La prima persegue lo scopo di separare, fin dal momento dell’ingresso in magistratura, i ruoli dei magistrati inquirenti e giudicanti: due ordini, due poteri separati, senza sottomissione alcuna dell’uno nei confronti dell’altro, né -tantomeno- senza sottomissione della funzione inquirente al potere esecutivo. Il “Progetto Costa” di legge costituzionale individua come presupposto necessario la creazione di due distinti organi di autogoverno delle magistrature».

Avremmo un Csm della magistratura giudicante ed un Csm della magistratura inquirente/requirente?

«Esatto, con una speculare composizione: avremmo un pari numero di componenti togati e laici, i vice presidenti sarebbero, rispettivamente, il primo presidente della Corte di Cassazione e il Procuratore generale della Cassazione. Questi due Csm sarebbero presieduti dal Presidente della Repubblica».

Invece la separazione delle funzioni?

«La seconda ipotesi -con qualche vulnus dovuto ad una tradizione politico-culturale lontana nel tempo- si basa su un unico accesso in magistratura tramite concorso: successivamente i magistrati effettuano la scelta della carriera giudicante o di quella requirente. Come detto, le norme dell’Ordinamento giudiziario oggi consentono sostanzialmente il transito tra le due diverse funzioni: un passaggio che avviene soprattutto nella fase iniziale della carriera e assai di rado successivamente».

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Enrico Maria Mancuso, palermitanoclasse 1977, è professore ordinario di Diritto processuale penale presso l’Università Cattolica di Milano, ove insegna anche Diritto e logica della prova e Sicurezza dell'informazione. Autore di monografie in materia processuale, concentra la sua attività di ricerca nella materia del diritto delle prove penali, nella responsabilità delle società ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001 e nell'emergente ambito delle corporate internalinvestigations.

Michele Saponara, lucano di Palazzo San Gervasio (Pz), classe 1933, avvocato penalista di lungo corso, è stato prima presidente della Camera penale e successivamente, dal 1992 al 1996 dell’Ordine degli avvocati di Milano: eletto alla Camera dei Deputati nelle liste di Forza Italia nella XIII legislatura, anche in qualità di membro delle commissioni Affari Costituzionali, d’inchiesta Dossier Mitrokhin, si fece promotore di battaglie dell’avvocatura nazionale. Nel 2004 venne nominato sottosegretario agli Interni nel secondo governo Berlusconi succedendo al dimissionario avvocato Carlo Taormina , incarico svolto anche nel terzo governo del leader forzista, dal 2005 al 2006. Nel 2006 è eletto membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura in quota FI.

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