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August 25 2023
Eventi come la segregazione, l’abuso e la tortura sono esperienze dolorose e insostenibili per chiunque le subisca, con effetti distruttivi e che si connotano come esperienze oggettivamente traumatiche. Il trauma psichico è un sentimento di intensa paura, impotenza, vissuto come perdita di controllo e minaccia di annichilimento. Per chi subisce questa condizione questi elementi non sarebbero elaborabili e integrabili nel proprio Io perché queste esperienze così dolorose andrebbero ad inibire le difese, minando l’integrità della coscienza e interrompendo la continuità del Sé. Nel caso specifico saremmo di fronte a quello che viene definito trauma interpersonale di tipo II, ovvero le conseguenze di un abuso prolungato e ripetuto causato dall’uomo su un’altra persona.
Le emozioni legate al trauma sarebbero vissute prevalentemente come sensazioni somatiche. Gli individui traumatizzati risulterebbero essere generalmente così sensibili agli eventi traumatici passati da avere delle soglie molto basse per agenti stressanti minori, diventando così iperattivati o ipoattivati. Nel caso dell’iperattivazione, l’accesso ai ricordi traumatici farebbe sì che, costantemente, vi siano involontarie intrusioni del trauma, sotto forma di flashback, incubi, aumento della frequenza cardiaca, aumento delle sensazioni corporee, della tensione muscolare, dei movimenti involontari, descrizioni soggettive di timore, di paura, fino al panico. Nel caso invece di ipoattivazione avremmo invece una compromissione della memoria, delle funzioni motorie ed affettive. Nelle forme cronicizzate si verificherebbero sintomi dissociativi come debolezza, torpore, deficit attentivi, amnesia, fino ad arrivare a uno stato confusionale. Spesso, in questa condizione, la capacità di percepire le emozioni e di sperimentare reazioni emotive sarebbero ridotte portando a una condizione di inattività passiva, spesso confusa con depressione, resistenza o comportamento passivo/aggressivo.
Quando il soggetto è stato oggetto di circostanze così terribili e paurose tali da inibire le reazioni di disgusto, odio e utile difesa, vivrebbe inconsapevolmente la tendenza alla sottomissione, consegnandosi all’aggressore, per altro unico interlocutore umano, identificandosi in ciò che egli si aspetta, tendendo a sentire ciò che l’aggressore sente e vuole, qualche volta anticipandone le mosse. Questo sarebbe anche l’effetto dell’attivazione di un sistema adattivo di sopravvivenza. Col passare del tempo infatti i vissuti di paura, sconcerto, rabbia e disperazione verrebbero sostituiti dalla rassegnazione e dall’adattamento alla condizione di prigionia. La fase di adattamento, spesso parallela a quella di rassegnazione, consisterebbe nel capire “come funziona il sequestro”, nel cercare di non fare “alzate di testa”, come ad esempio tentare la fuga. La fase di rassegnazione sarebbe per molti caratterizzata da stanchezza, soprattutto mentale, da avvilimento, sconforto e depressione. Le costanti pressioni psicologiche, lo stretto contatto, la solitudine e l’istinto di sopravvivenza, avrebbero favorito, in alcuni casi, l’instaurarsi di un rapporto, a volte molto profondo, tra ostaggio e carceriere. Tale rapporto, che si potrebbe definire come una forma particolare di “sindrome di Stoccolma”, sarebbe caratterizzato da sentimenti di giustificazione e di comprensione nei confronti dei rapitori e da comportamenti apparentemente inspiegabili, come ad esempio l’abbraccio tra la vittima e il carnefice al momento del rilascio. Ciò sarebbe reso possibile anche dall’inserzione nella mente della persona segregata dei vissuti e delle percezioni dell’aggressore, comportando, come conseguenza, che la propria esperienza e la propria interpretazione, vengano ridimensionate e schiacciate, sino ad arrivare alla totale negazione della realtà.
La vittima di segregazione e tortura avrebbe vissuto intensi processi dissociativi, ovvero un’assenza di connessione nel pensiero, nella memoria e nel senso di identità. Può sperimentare reminiscenze ri-traumatizzanti, cadendo difensivamente in una condizione confusa, di spossatezza, di surrealità. Nelle relazioni sociali l’attenzione percettiva, intuitiva, emotiva, tenderebebro all’ipervigilanza, come se si predisponesse a tentare l’evitamento, la fuga, il mimetismo, nel tentativo di scomparire, di dissolversi o attivare, di contro, comportamenti che vadano a cercare affiliazione utilizzando generosità assoluta, compiacenza, seduttività. I fatti realmente vissuti verrebbero trasformati dalla dinamica della paura e della sottomissione con l’effetto di accumulare confuse memorie, sensi di colpa, vergogna, segretezza, acquisendo, nella sua condizione di solitudine traumatica e di abbandono emozionale, un profondo disconoscimento del proprio vissuto.
Il sequestro di persona spoglierebbe l’individuo di qualsiasi gesto legato alle proprie abitudini e quotidianità. Ogni vittima di sequestro di persona avrebbe vissuto (e tuttora vivrebbe) il suo sequestro in modo personale e soggettivo. Non è possibile, infatti, tracciare degli schemi universali sui vissuti emotivi legati al periodo della prigionia. Fatta questa premessa, alcuni studiosi ritengono comunque possibile individuare alcune fasi che le vittime di sequestro attraverserebbero durante l’esperienza traumatica. Crocq ne ha individuate quattro:
Symonds ha osservato come le vittime di sequestro passino attraverso una fase iniziale di diniego, caratterizzata da choc e incredulità, una fase successiva di realtà e poi una fase di depressione traumatica, caratterizzata da apatia, collera, rassegnazione, irritabilità, insonnia, e reazioni di allarme.
La liberazione dalla condizione di ostaggio non sempre chiuderebbe il capitolo. Molti ex-sequestrati, infatti, soffrirebbero attualmente di Disturbo Post-Traumatico da Stress e di Disturbo Depressivo Maggiore. La gravità delle conseguenze del rapimento non sarebbe legata esclusivamente ad una diagnosi conclamata di tali disturbi; le vittime di sequestro di persona, infatti, vivrebbero, in molti casi, circondati da oggetti, odori, rumori che riporterebbero la memoria al sequestro.
Sono molteplici le difficoltà e la fatica di riadattarsi ad una vita normale e di riprendere contatto con la propria vita dopo la segregazione. Entrare in possesso della passata quotidianità, dei propri spazi, delle proprie cose e, soprattutto, riconquistare la possibilità di vivere nelle ore e nei tempi antecedenti la prigionia, può rappresentare un ulteriore elemento di stress. Spesso, infatti, non sarebbe facile abbandonare la dimensione della reclusione, una dimensione scandita da un tempo che sembra infinito, senza cognizione del giorno e della notte, senza potersi muovere se non in piccoli spazi e senza poterli vivere. La persona sequestrata imparerebbe, si adatterebbe a vivere in un tempo e in uno spazio quasi irreali, fatti di suoni e immagini molto particolari. Molte vittime, durante la prigionia, avrebbero sviluppato la capacità di sentire e di riconoscere rumori quasi impercettibili, altri avrebbero imparato ad amplificare le proprie capacità cognitive di memoria riuscendo ad immagazzinare una straordinaria mole di informazioni in una sorta di “diario mentale”. Inoltre, la difficoltà del reinserimento nella propria vita sarebbe accentuata dalle continue interferenze ed intromissioni da parte dei mass-media e dagli interminabili e spesso estenuanti interrogatori degli inquirenti. Alcuni soggetti sostengono di “rimpiangere” ogni tanto la “tranquillità” e il silenzio dei momenti trascorsi in prigionia.
Il trauma del sequestro determinerebbe in molti casi, degli effetti sulla personalità e sul carattere delle vittime. In particolare, gli ex-sequestrati avrebbero rilevato un profondo cambiamento nel proprio modo di pensare e di pianificare il futuro, a volte però trovando anche dei risvolti positivi. Sicuramente i tempi della “carcerazione” e le caratteristiche temperamentali giocherebbero un ruolo determinante nella possibilità di superare l’esperienza traumatica.