Economia
October 25 2019
A
Mirafiori sono scomparsi da anni gli operai, e anche i politici. Eppure lo scorso 30 settembre, per un giorno, nello stabilimento vuoto di via Settembrini sono tornati gli industriali. In attesa che l’Europa finanzi con i soldi dei contribuenti la transizione verso l’auto elettrica, qui arriveranno aule universitarie, un po’ di tecnologia 4.0 molto glam ma poco labour intensive e, unico progetto concreto, un aereo da combattimento senza pilota. Insomma, armi, un comparto che non conosce crisi. L’occasione del triste ritorno in una Mirafiori deindustrializzata era l’assemblea annuale degli industriali piemontesi, a otto anni dall’uscita di Fca da Confindustria, un trauma che il presidente uscente Vincenzo Boccia non ha dimenticato, ma ha affrontato con parole generose. «Fca è una delle più grandi aziende del Paese. Abbiamo un ottimo rapporto con loro e auguriamo sempre grande successo a questa azienda che è nel cuore di tutti noi» ha detto il titolare della Arti grafiche Boccia di Salerno, che quest’estate, nel suo piccolo (ha 200 dipendenti) ha dovuto sperimentare la cassa integrazione ordinaria.
Con la nascita del Conte bis, Confindustria ha ottenuto un tavolo di governo sulla crisi dell’automotive, al quale dovrebbe partecipare anche Fca. Ma nonostante le indiscrezioni che circolano da maggio sul ritorno nella confederazione del colosso controllato dalla famiglia Agnelli Elkann, anche dopo le parole di Boccia c’è stato un imbarazzato silenzio. È vero, Fca ormai da cinque anni è un gruppo che ha sede legale in Olanda, residenza fiscale nel Regno Unito ed è quotato a New York, oltre che a Milano; ma che interesse dovrebbe avere a rientrare in Confindustria?
Serve ancora la gloriosa organizzazione degli industriali italiani, fondata nel 1910 e per tutta la prima repubblica, con presidenti come Angelo Costa, Gianni Agnelli, Guido Carli, Vittorio Merloni e Luigi Lucchini, dotata di un prestigio, di un’autorevolezza e di un blasone che oggi sembrano irripetibili? Ha ancora un peso politico? E soprattutto, la sfida per la presidenza partita in questi giorni da Carlo Bonomi, industriale vero, rappresentante del Nord più dinamico e presidente di Assolombarda, ha chance di successo o cadrà nella palude romana di una Confindustria che si mantiene grazie alle quote delle aziende di Stato e non sa come uscire dalla crisi del suo gioiello più importante, il Sole 24 Ore?
In Viale dell’Astronomia, in questi quasi otto anni trascorsi dall’addio voluto da Sergio Marchionne, è come se si fosse fermato il mondo. Il bilancio al 31 dicembre 2011 registrava 149.288 soci per 5.516.975 occupati, che a fine 2018 sono diventati 150.576 imprese e «oltre 5 milioni di addetti». Il peso politico, insomma, sarebbe più o meno immutato, almeno dai numeri ufficiali. È sceso solo il costo del personale, passato da 240 a 188 persone, per un totale di 18,4 milioni (il 49 per cento degli oneri totali). I proventi, quasi tutti da quote associative, tra il 2011 e il 2018 sono calati da 39,3 a 37,5 milioni. Una sana e prudente gestione, insomma, non è mancata, com’era giusto che fosse in un’istituzione che ha nel suo Dna la rampogna ai politici spreconi. Con una piccola eccezione, che riguarda la controllata (al 65 per cento) Sole 24 Ore, travolta dallo scandalo delle copie digitali inventate per abbindolare gli inserzionisti. Ancora nel bilancio 2018, nel capitolo sulle partecipazioni, si legge che «i risultati dell’analisi effettuata hanno evidenziato che il valore recuperabile della partecipazione di Confindustria ne Il Sole 24 Ore S.p.A., definito come il maggiore tra il valore d’uso e il fair value (il prezzo che si percepirebbe per la vendita di un’attività, ndr), è risultato maggiore del valore di carico della stessa, pari a euro 89.895.029».
Ma la Borsa, là dove si misurano i campioni del famoso «mercato», a volte non è fair e misconosce anche il value. Dal 9 marzo 2017, quando si scoprì che la Procura milanese aveva iscritto nel registro degli indagati l’ex direttore Roberto Napoletano, l’ex a.d. Donatella Treu e l’ex presidente Benito Benedini, in Piazza Affari il titolo è passato da 1,3 euro ai 50 centesimi di metà ottobre. La capitalizzazione di Borsa è scesa così ad appena 28 milioni.
Il Sole, volendo, lo si porta via con poco. E pur con una redazione piena di ottimi giornalisti, il giornale ormai vende 132 mila copie al giorno (dati Ads sui primi otto mesi 2019). A marzo del 2011, quando Gianni Riotta lasciò la direzione a Napoletano, erano il doppio, 261 mila. Con i processi in corso, e Napoletano che insegna regolarmente alla Luiss, l’università della Confindustria, ancora difeso dalla parte romana dell’associazione (i vari Abete e Caltagirone), la sensazione è che alla fine gli industriali italiani abbiano la stessa propensione a fare pulizia in casa propria che hanno rimproverato per mezzo secolo alla classe politica dalle colonne del loro giornale.
E se il silenzio di John Elkann sull’ipotesi di un prossimo rientro in Confindustria è assoluto, non è detto che l’impresa non possa riuscire a Carlo Bonomi, che se la prossima primavera fosse scelto come presidente della confederazione almeno riporterebbe tre temi forti, come il Nord, la manifattura e l’innovazione tecnologica, tra le priorità di Viale dell’Astronomia.
Il presidente di Assolombarda, 53 anni, controlla un gruppo nel settore della biomedica e della diagnostica ed è già inserito in lobby di peso come l’Aspen Italia, l’Ispi (Istituto per la politica internazionale) e il cda della Bocconi. Rispetto a Boccia, ha mostrato un piglio più deciso rispetto al governo e alla politica in generale. Lo si è visto alla Scala di Milano anche lo scorso 3 ottobre, quando davanti al premier Giuseppe Conte, ha tenuto una relazione durissima in cui ha chiesto una totale «discontinuità fiscale» e ha criticato la manovra sul cuneo, spiegando che tagliarlo di soli 2 miliardi non serve a nulla e che l’intervento minimo dovrebbe essere di 12-13 miliardi. In più, ha demolito Quota 100, reddito di cittadinanza e, già che c’era, anche gli 80 euro di Matteo Renzi.
Del resto Boccia, e lo stesso Bonomi se sarà eletto, deve fare i conti con il peso di soci come Enel, Eni, Terna e così via, ovvero i campioni dell’industria di Stato, i cui verticisono nominati dai partiti e senza le cui quote annuali i famosi «industriali privati» farebbero fatica a chiudere il bilancio. Ma intanto, i problemi di indipendenza aumentano: quanto può essere felice un socio Confindustria che ritiene di pagare troppo l’energia rispetto ai concorrenti stranieri, se poi si trova nella stessa confederazione con il suo fornitore al quale nessuno, ovviamente, chiederà di abbassare le tariffe? Stesso problema si porrebbe per la ventilata fusione tra Confindustria e Abi: può uno stesso organismo rappresentare le banche e soggetti che spesso si dipingono come vittime delle banche stesse?
Ora, è ben possibile che nei prossimi mesi Confindustria rialzi la testa, sposti il suo baricentro nell’unica parte del Paese che è davvero in Europa e magari anche che Fca torni in un’associazione della quale ha fatto la storia. Per riuscirci, però, dovrà sicuramente fare i conti con i suoi ultimi, disgraziati, anni. L’8 ottobre sono uscite le motivazioni della condanna per mafia a 14 anni (in primo grado) di Antonello Montante, ex presidente di Confindustria Sicilia, che sotto la presidenza di Emma Marcegaglia divenne perfino vicepresidente nazionale con delega alla legalità e riuscì a piazzare uomini di propria fiducia ai vertici della sicurezza di Viale dell’Astronomia e nel vecchio cda del Sole.
Montante è stato, scrivono i giudici di Caltanissetta, «sotto le insegne di un’antimafia iconografica», ha occupato le istituzioni «mediante corruzione sistematica e operazioni di dossieraggio». A lui, come a Napoletano e a tutti i cittadini italiani, è giusto augurare l’assoluzione nei prossimi gradi di giudizio, ma restano intatti i profili etici e di opportunità, nonché gli errori di chi li ha scelti e cooptati. Nei giorni in cui se n’è andato un ex presidente perbene e un grande imprenditore come Giorgio Squinzi, si spera che Confindustria giri davvero l’angolo. Mentre l’Italia svolta a sinistra con il primo governo giallorosso, ce ne sarebbe anche bisogno.n
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