«Torniamo a fare la seta italiana in Italia»
- «Torniamo a fare la seta italiana in Italia»
- «Ricostruiamo le filiere di eccellenza per sostenere il Made in Italy»
Il primo è stato il Veneto, che attraverso il laboratorio di Padova del Crea, il più importante ente italiano di ricerca per l'agricoltura, sta provando a rilanciare la sericoltura attraverso processi di formazione, meccanizzazione e riorganizzazione delle attività agricole. Ma si sta muovendo anche il Trentino, dove a Rovereto il neonato Distretto della seta del Basso Trentino sta per dar vita al primo orto urbano in cui reintrodurre i gelsi e la coltura dei bachi da seta. In Calabria, un'azienda agricola di San Floro ha ripreso l'antica filiera della gelsibachicoltura. In Friuli Venezia Giulia, sono partiti due progetti per rilanciare l'allevamento dei bachi da seta attraverso nuovi sistemi di produzione e lavorazione.
Dopo un oblio lungo 50 anni, in Italia si cerca di riportare in vita la produzione della seta. Il Paese che a partire dal Medio Evo era stato per parecchi secoli il maggior produttore europeo (le ville venete palladiane erano state costruite con i proventi delle vendite della seta), dagli anni Settanta ha praticamente smesso di praticare la bachicoltura. Dopo aver delocalizzato in Cina, la nostra industria serica ha finito con l'affidarsi totalmente alle importazioni dal Paese ormai diventato monopolista mondiale. Una scelta strategica che in quest'ultimo periodo l'Italia ha rimesso in discussione, spiega la ricercatrice Silvia Cappellozza. Responsabile del laboratorio di Gelsibachicoltura di Padova del Centro di Agricoltura e Ambiente del Crea, il più grande ente italiano di ricerca per l'agricoltura che dipende dal Ministero delle politiche agricole, Cappellozza è la signora italiana dei bachi da seta. Panorama l'ha intervistata.
Che errore clamoroso delocalizzare tutta la produzione di seta in Cina. Soprattutto perché abbiamo perso il know how del processo produttivo...
«Certamente. È stato un errore gravissimo, dettato da una visione un po' miope del comparto industriale. Perché la grossissima difficoltà che troviamo adesso che stiamo cercando di far ripartire la produzione qui da noi non risiede tanto nell'allevamento del baco da seta o nelle fasi agricole. Lì il know-how per fortuna è rimasto. A proposito, spesso si dice che le istituzioni pubbliche non servono a niente. Questo invece è un caso in cui l'istituzione pubblica ha salvaguardato sia le razze del baco da seta allevate in Italia sia il know-how».
Ma il vostro laboratorio, oltre a promuovere la sericoltura, alleva anche bachi?
«Noi siamo banca di germoplasma, cioè abbiamo delle collezioni sia di razze di baco da seta sia di varietà di gelso e quindi conserviamo questo materiale per renderlo disponibile agli agricoltori italiani. Noi siamo primariamente un ente di ricerca, ma abbiamo anche una cosiddetta terza missione, che è il servizio che facciamo ai territori e agli agricoltori. Fra questi servizi c'è appunto la conservazione di questo patrimonio genetico e di razze».
Quindi se si è conservato questo patrimonio biologico è merito del Crea?
«Beh, sì. Tenga presente che in Europa ce ne sono due di istituti come il nostro. Uno è da noi, e fa parte del Crea, ed è il più importante, e l'altro è in Bulgaria».
Perché anche la Bulgaria è produttrice di seta?
«Era. Adesso ne produce molto poca, a causa della concorrenza della Cina, che è diventata il monopolista mondiale. L'Europa è stata spiazzata».
Tornando all'Italia, lei diceva che gli agricoltori hanno mantenuto la memoria. Ma come?
«Perché in Veneto si è sempre fatto un po' di allevamento. Il nostro laboratorio a Padova ha sempre cercato di mantenere vivo l'allevamento, con la collaborazione dell'Associazione nazionale bachicoltori, attiva fino al 2011, e con la Stazione per la seta di Milano, che apparteneva al Ministero dell'Industria (ora Innovhub). Avendo questi tre presidi in Nord Italia, si è sempre allevato un po ' il baco da seta anche perché c'era il contributo comunitario».
Gli agricoltori quindi erano incentivati ad allevare i bachi. Ma che cosa ne facevano dei bozzoli?
«Non essendoci più processi di trasformazione in Italia, i bozzoli venivano esportati, ad esempio in Turchia. Comunque è stato un bene perché ha mantenuta viva la conoscenza e in buona salute i gelsi, che venivano curati. Questo fino agli anni Novanta, quando c'è stata l'introduzione di un nuovo insetticida, fenoxycarb».
Insetticida che ha combinato un disastro...
«Ha combinato un disastro perché veniva distribuito sui frutteti, trasportato dal vento arrivava sui gelsi e impediva la filatura del bozzolo da parte dei bachi».
In che senso i bachi non riuscivano a filare il bozzolo?
«Sembravano belli e sani, ma rimanevano larve. Quindi in pratica l'agricoltore sosteneva tutti i costi dell'allevamento perché arrivava sino alla fine del ciclo vitale, non è che morissero prima avvelenati... Quando arrivavano al termine della loro vita di larve, continuavano a mangiare, allungando il ciclo, e poi morivano. Una vicenda disastrosa, che è andata avanti per più di un decennio, fra divieti e sospensioni, in cui il nostro istituto ha collaborato per capire le cause. Alla fine, dal 2010, questo principio attivo, ormai diventato obsoleto, è stato eliminato dal mercato. Adesso è vietato».
E così si sono persi 20 anni...
«In questi 20 anni gli agricoltori non hanno potuto fare niente, soprattutto nel Nord Italia. Nel Sud, in Calabria, è sopravvissuta una tradizione quasi artigianale. Però di fronte a questo problema noi come istituto abbiamo sviluppato un mangime artificiale per il baco da seta: abbiamo provato a continuare la nostra ricerca, progredendo a livello tecnologico. Quando nel 2012 ci siamo resi conto che il problema era superato, abbiamo cercato di far riprendere il comparto, anche grazie all'azione di imprenditori illuminati, estranei al modo tessile tradizionale. Diciamo che abbiamo ripreso in maniera decisa nel 2015, anche grazie all'azione di imprenditori illuminati, estranei al modo tessile tradizionale».
Nel frattempo, la produzione di seta in Cina e India è esplosa...
«Producono sempre grossi quantitativi: la Cina nel 2015 ha toccato le 170.000 tonnellate, nel 2018 si è attestata a 120.000. Sempre nel 2018, l'India invece ne ha prodotte 35.2561. In India, però, producono soprattutto per autoconsumo: si tratta di seta di qualità non eccellente usata per l'abbigliamento, in particolare i sari. E non credo che potranno incrementare tanto l'attuale produzione».
Perché in Cina fra il 2015 e il 2018 la produzione è calata?
«Sta calando perché in questi ultimi anni il Paese si è industrializzato in maniera prepotente e sta vivendo quel fenomeno che c'era da noi in Italia nel Dopoguerra e che aveva portato alla sparizione della gelsibachicoltura, con problemi che vanno dal fatto che la manodopera rurale, soprattutto quella giovane, è andata a lavorare nelle fabbriche svuotando le campagne. E quello dei bachi da seta, va sottolineato, è un allevamento che richiede molta manodopera. E poi anche i cinesi, come gli indiani, si sono spostati su colture alimentari, che danno redditi maggiori agli agricoltori, perché le possono vendere liberamente sul mercato. La sericoltura, invece, è tutta governata dallo Stato attraverso industrie che in pratica sono statali. Tutta la catena della seta in Cina è soggetta a dumping, per cui il prezzo è tenuto artificialmente basso per cercare di eliminare i concorrenti dal mercato».
Quindi il calo è un fenomeno strutturale?
«La produzione in Cina è calata drasticamente in quegli anni. Allora i cinesi hanno portato gran parte della loro sericoltura nelle regioni più povere del Sud e del Sud-Ovest del Paese. Il risultato è un prodotto di qualità un pochino inferiore. Non a caso adesso per gli industriali italiani non è tanto la quantità della seta cinese a rappresentare un problema, quanto la qualità, che non è più eccellente come una volta. Proprio perché la produzione è stata spostata in zone che non sono quelle dove tradizionalmente si produceva seta e dove i lavoratori non hanno il know how di quelli delle zone tradizionali».
Al calo della qualità è invece corrisposto un aumento dei prezzi, vero?
«I costi sono cresciuti. Parliamo di un periodo di pre-pandemia: adesso c'è un'iperofferta da parte dei produttori».
Lasciamo perdere la pandemia.
«Prima del 2020 i prezzi si erano impennati: nel 2009 la seta costava 21,7 dollari al chilo, nel 2017 è arrivata a costare 70 dollari al chilo».
I prezzi sono più che triplicati nel giro di otto anni.
«È questo che ha fatto prendere paura agli industriali italiani ed europei della seta, che si sono resi conto che non sarebbero riusciti ad avere a lungo un prodotto a basso costo».
Industriali che ormai producono tutto in Cina...
«È così. Quando in Italia hanno smesso di produrre seta, gli industriali hanno portato la nostra tecnologia in Cina e si sono approvvigionati di materia prima direttamente sul posto».
Industriali comaschi?
«Prevalentemente sì. Dal loro punto di vista, a breve termine la delocalizzazione della fase produttiva è stata vantaggiosa perché la manodopera costava poco. Ma adesso, nel medio termine, stanno pagando il prezzo delle loro scelte perché qui è scomparso qualsiasi tipo di know-how. E quel che è peggio, è che i cinesi ci venderanno sempre più il capo finito. Prima ci vendevano la matassa, poi ci vendevano il tessuto e fra poco ci venderanno il prodotto finale».
Insomma, i nostri industriali pensavano di far fare ai cinesi solo il prodotto di basso livello e invece si sono visti scoppiare in mano il giocattolo.
«Esatto. Il problema è che adesso le filande sono cinesi. Ci sono delle compartecipazioni e quindi i cinesi hanno acquisito il know-how».
E i cinesi, abilissimi, hanno sicuramente detto: «Facciamo tutto noi».
«Al momento, gran parte dell'import è ancora la matassa di seta greggia, ma per avere la matassa di seta greggia di buona qualità i produttori devono avere il controllo di tutto il processo. Quando un popolo cresce e si industrializza fa un salto di qualità».
È ovvio.
«Un'altra cosa che noi stiamo facendo è andare a insegnare il design italiano in Cina e fare venire gli studenti cinesi qui a imparare. Un'altra mossa furba: e quando loro impareranno a fare il passo successivo, dopo non ce ne sarà più per nessuno».
Sarà finito il made in Italy.
«Sarà finito il made in Italy. Io capisco che bisogna collaborare, far crescere i popoli intorno a noi e farli evolvere. Ma, nel caso della Cina, questo ha un rovescio della medaglia».
Che equivale a cedere, gratis, la propria expertise...
«Eh sì. E noi non siamo in grado adesso di innovare così rapidamente per stare al passo. È chiaro che alcuni settori strategici devono essere tenuti qui in Italia. È uno dei motivi per cui io cui io sarei restia a portare la produzione delle uova del baco da seta fuori dall'Italia, perché una volta che abbiamo ceduto anche il nostro patrimonio di germoplasma, non abbiamo più niente».
Questo sarebbe di una miopia assoluta...
«È vero. Ma qui è lo Stato che dovrebbe governare i processi. Un esempio illuminante viene dal Giappone: lì la bachicoltura ha subito lo stesso tracollo che ha subito qui, perché anche i giapponesi si sono industrializzati e la manodopera ha un costo altissimo. E anche loro hanno iniziato a importare tantissima seta dalla Cina. Però, a differenza nostra, hanno mantenuto tutto il segmento produttivo, le filande e i ricercatori che ci lavoravano, proprio per mantenere il know-how. Lo stesso imperatore difende il marchio della seta giapponese ed è coinvolto nell'allevamento dei bachi, proprio come attività tradizionale giapponese. Proprio perché capiscono che fa parte della loro storia e della loro tradizione e che è importante mantenere la conoscenza. Da noi, invece, c'è stata una mancanza di visione».
Se ne sarebbe dovuto occupare lo Stato italiano. L'Unione europea invece qualcosa ha fatto, dando i contributi ai bachicoltori.
«Lo ha fatto fino al 2014. Poi, con la riforma della Pac, questi contributi sono stati eliminati perché ogni Stato doveva decidere se concederli o meno. E l'Italia, naturalmente, non lo ha concessi».
Lungimirante come al solito, l'Italia... Ma quali sono le prospettive future per la produzione della seta?
«Anziché fare balzi tecnologici in termini di innovazione del ciclo produttivo, quello che si è sempre fatto con la gelsibachicoltura è stato trasferire della produzione in luoghi in cui costavano meno. Adesso la produzione è sviluppata in Cina, India, Vietnam, Cambogia... E all'interno di questi Paesi, nelle zone più povere».
Ma queste zone prima o poi diventeranno ricche...
«Sa cosa sta succedendo adesso? I cinesi stessi stanno andando in Africa a cercare di portarla là. Ad esempio ci sono progetti in Africa centrale. L'idea è di portarla sempre laddove costa meno. Emblematico quello che è successo in Brasile: i giapponesi hanno esportato la gelsibachicoltura in Brasile, dove si è sviluppata al punto che il Brasile è diventato il principale produttore dell'America latina. Ma quando il Brasile ha iniziato a industrializzarsi, anche lì è diventato troppo costoso produrla e la produzione è entrata in declino. È una costante: anziché innovare, si va dove costa poco la manodopera».
Invece si potrebbe innovare, vero?
«Sì, è quello che stiamo cercando di fare noi al Crea. Però bisognerebbe fare un'innovazione sia in campo agricolo sia in campo industriale. Ma in campo industriale noi non abbiamo più le competenze. Noi qui in Europa non siamo più in grado di costruire filande. E non abbiamo neanche la capacità produttiva dei bozzoli. Questo è il grosso problema per cui non si sviluppa la gelsibachicoltura. Anche se qui in Italia avessimo un grande progetto, dovremmo avere già pronte la filiera dello stabilimento di produzione delle uova del baco da seta che fa uova di grande qualità. Poi dovremmo avere gli allevatori già attrezzati e formati per fare bozzolo di altissima qualità e poi dovremmo avere la parte industriale già risolta, con una filanda a norma sulla sicurezza del lavoro e sull'inquinamento ambientale perché le filande che sono in Cina non sarebbero in regola...».
Ma è una battaglia persa in partenza.
«Esatto. Infatti noi non ci siamo mai spesi su questa battaglia. Quello che abbiamo sempre sostenuto invece è di fare filande piccole e flessibili per produzioni semi-artigianali di altissima qualità, di estrema nicchia. Come fanno in Giappone. Affiancando al tessile anche altre produzioni a partire dal gelso e dal baco (per la cosmetica, la farmaceutica, la biomedica) ma anche valorizzando la parte turistica. E quindi in un'ottica di economia circolare, che qui in Europa è ben vista e ben sovvenzionata. Vorrei però sottolineare un altro aspetto».
Prego.
«In realtà, anche le industrie della seta di Como hanno un grande problema di posizionamento, strette come sono fra il prezzo della materia prima e quello che sono disponibili a pagare i brand della moda. Questi ultimi sono il vero problema, perché assorbono gran parte dei profitti. I brand dovrebbero essere disponibili a ripartire il valore aggiunto in tutti i segmenti della filiera. Mentre quello che accade ora è che, se il prezzo della materia prima aumenta, i brand sono disponibili a riconoscere ben poco di tale aumento alle industrie di trasformazione comasche. Per questo motivo, tante aziende si stanno spostando su materiali diversi dalla seta».
Insomma, per salvare la seta italiana, ognuno deve fare la propria parte.
«Noi la stiamo facendo».«Ricostruiamo le filiere di eccellenza per sostenere il Made in Italy»
Il settore tessile è stato tra quelli che ha maggiormente risentito dei mutamenti legati alla globalizzazione, con l'entrata di nuovi competitor nei mercati internazionali. Tutto ciò ha creato conseguenze rilevanti sulla produzione del Made in Italy.
La filiera del tessile è complessa, articolata e caratterizzata da processi molto impattanti dal punto di vista ambientale. Negli ultimi decenni la consapevolezza di questa insostenibilità ha portato allo sviluppo di forti innovazioni nei processi produttivi. Grande attenzione è stata posta dalla filiera per diminuire il consumo delle risorse non rinnovabili, utilizzare prodotti chimici non dannosi per l'uomo e per l'ambiente, e per estendere il ciclo di vita dei prodotti, negli obiettivi di economia sostenibile.
Tutto ciò è il punto di partenza di un necessario cambiamento a livello di sistema, come ho constatato parlando con tante aziende dei distretti del tessile di Como e Biella. Emerge con forza la necessità di investire e supportare in modo organico l'intero sistema, valorizzandone i punti di forza, recuperando competenze manuali e artigiane e introducendo competenze tecnologiche. Occorre incidere in modo strategico e in maniera rapida e organica, sviluppando un'economia di rete, allargando collaborazioni e sperimentazioni con Istituzioni e con settori «limitrofi»: agro-tecnico, chimico, nutraceutico e cosmetico, ad esempio, come nel caso dei progetti di recupero della seta italiana.
Un approccio integrato e controllato lungo tutta la filiera consente di disporre dati certi per il tracciamento ambientale, produttivo e sociale, offrendo una misurazione scientifica di impronta «ecologica» per fornire prodotti di qualità e di sostenibilità certificate, evitando contraffazioni e in linea con le richieste dei brand di moda sostenibile. La ricostruzione di alcune filiere di eccellenza di produzione di materia prima, come nel caso della seta e della canapa, darebbero ulteriore prestigio al Made in Italy, e potrebbero fornire una risposta alle sfide del mercato globale, valorizzando un patrimonio unico del nostro territorio.
Gabriella M.A. Grazianetti *
* Dopo aver lavorato oltre 25 anni nel settore Telco/ICT come Program Manager Reti Internazionali in Italtel SPA, ha fondato una startup nel settore fashion-tech.
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