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March 06 2014
di Concetta Bonini
L'ultima intervista del filosofo Manlio Sgalambro è stata realizzata il 13 gennaio 2014 per il giornale siciliano FreeTime
Per uno che ha sempre sostenuto che “la vera vita è la vita della mente”, non c’è miglior condizione che quella di vivere da solo, con l’indistruttibile compagnia di se stesso ottantanovenne, in una tana dove il trambusto della piazza catanese, pur essendo ad un passo, non arriva. “Ho avuto dalla vita tutto quello che ho voluto, adesso ciò che mi contraddiceva o che contraddiceva quel mio modo di pensare, per esempio la mia famiglia, è scomparso: da anni vivo solo”, conferma Manlio Sgalambro – lo sguardo dall’alto in basso, imperturbabile, sprezzante – dandoci il benvenuto nella grande cassaforte dei suoi libri. Li ha accumulati nei decenni: rare edizioni di Voltaire, introvabili traduzioni del Don Quijote. Li ha accumulati con rispetto ma senza venerazione, impilandoli a file di due sugli scaffali altissimi della sua biblioteca: tanto che un antico volume, comprato da giovane con qualche risparmio, è finito chissà come sul tubo del condizionatore, a pochi centimetri dal manifesto ingiallito de “Il Cavaliere dell’intelletto”, e c’è da credere che lì resterà per sempre, in bilico, senza esser toccato mai più.
Lo conoscono per quello, soprattutto: per le opere teatrali, i dischi, le canzoni che ha scritto per e con Franco Battiato. Ma Manlio Sgalambro il mestiere di paroliere lo ha fatto solo per curiosità e per gioco, un po’ come aver sperimentato il matrimonio e aver messo al mondo cinque figli – “Non professavo certo un’esistenza monacale, volevo vedere se anche all’interno di una casa piena di rumori si potesse stabilire una situazione filosofica” - mentre la sua “vera vita” l’ha messa nelle opere di filosofia, che hanno fatto di lui uno dei principali punti di riferimento del pensiero nel Novecento italiano.
Orgogliosamente nichilista, allievo ideale degli scritti di Friedrich Nietzsche ed Emil Cioran, Sgalambro non ha studiato per diventare filosofo: lo è stato, e basta. “L’incontro con la filosofia – racconta oggi, rifiutandosi di ripetere per l’ennesima volta l’aneddoto leggendario di quei due volumi di Schopenhauer comprati al porto alla fine della guerra, quando dalle barche degli alleati capitava di veder scendere di tutto, insieme ai pacchi di pasta e ai salumi – è un modo di raccontare le faccende che non regge la sostanza delle cose. A un tratto uno si accorge che le cose su cui ha puntato gli occhi o le mani suscitano una reazione diversa. A un tratto ci si accorge, insomma, di quella cosa che chiamiamo pensare. Naturalmente bisogna calibrare bene anche questo termine, bisogna vedere quali sono le sfaccettature del pensare”. Quando Sgalambro si avvicinò all’interesse per la filosofia, ad esempio, il “pensare” era legato a Croce, a Gentile: “Erano loro che occupavano tutto lo spazio culturale, ma io non mi ritrovavo affatto in quei sistemi complessi e completi, dove ogni cosa era già stata incasellata. Per me pensare era una destructio piuttosto che una costructio: ero uno che notava le rovine, piuttosto che la bellezza. Questo era un po’ scomodo, e non certamente accademico…”. Per questo non gli passò neanche per la testa di iscriversi a Filosofia, e andò invece a curiosare nelle aule di Giurisprudenza: “Fu proprio all’Università, che mi capitò un episodio curioso, che mi meravigliò e mi continua a meravigliare. Vidi tra tutte una faccia che mi parve filosofica, lo dissi al compagno che camminava con me, facendogli notare la mestizia di quel volto. L’altro mi rispose che quell’uomo aveva appena ricevuto la notizia che sua moglie lo tradiva. Ecco, dunque, l’inganno delle cose! Nella filosofia ho camminato così, per strade non dritte…”.
Presto cominciò a scrivere, approdando sulle pagine di Tempo presente, diretta da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone. Ma già da poco – siamo alla fine degli anni ’50 – aveva pubblicato Crepuscolo e notte, che fu considerato il primo saggio italiano di esistenzialismo negativo: “La filosofia da noi era stata sempre volta all’esistenzialismo positivo, ma io e altri come me – ricorda Sgalambro – non potevamo identificarci con essa. Venivamo dalla fine della seconda guerra mondiale, dalla fine del fascismo, dalle parole di Heidegger e Celine: le distruzioni che avevamo visto, le avevamo introiettate, erano diventate un modo di considerare il mondo. Il nostro modo di sentire era quello della nausea di Sartre: la rottura dell’equilibrio, il senso di decentramento”. Così Sgalambro spiega l’origine della sua personalissima visione: “Non si poteva vedere nel mondo la bellezza, ma solo lo sfacelo, la disgregazione emotiva”.
“È stato da sempre chiaro che filosofare per me era una questione di vita o di morte – ama ripetere -, non era una questione di cattedra o di fare l’incaricato a vita”. Sarà anche per questo che ha aspettato fino all’età di 55 anni per organizzare il suo pensiero in un’opera sistematica e per decidersi a mandare ad Adelphi il manoscritto de La morte del sole: “E lì è rimasto due anni. Ma siccome io sono fatto in questo modo, non ho chiesto niente. Poi è arrivata una telefonata a mia moglie. Mi chiedevano di andare a Milano, per prendere contatto con l'editore. Roberto Calasso mi disse che quel libro non era maturo, era marcio: ed era esattamente così”.
Da quel momento i libri li ha pubblicati uno dietro l’altro, vedendoseli rapidamente tradurre in molte lingue: in poco tempo arrivò Trattato dell’empietà, in cui si cimentò con la materia di Dio – “per cui preparai abbastanza bene, cercando di frequentare la vera manualistica teologica, quella della formazione conventuale” e poi tutti gli altri. Intanto, all'inizio degli anni novanta, con alcuni amici avviò una piccola attività editoriale a Catania, la De Martinis, all'interno della quale Sgalambro si occupò di saggistica e pubblicò anche un paio di propri testi, Dialogo sul comunismo e Contro la musica.
“In mezzo a tutto questo, mi capitò tra i piedi Franco Battiato”, ricorda Sgalambro sorridendone, e racconta: “Per un certo verso direi che è stato uno di quegli incontri che ti portano fuori strada, ma questa è una percezione che ho avuto molto tardi. A volte trovo che è come se tutto quel tempo io lo abbia perduto: la questione starebbe nel vedere se sia possibile recuperarlo…”. Il primo incontro tra Sgalambro e Battiato fu proprio per Il Cavaliere dell’Intelletto. “Un giorno venne questo tipo spiritato, con gli occhi di fuori, e mi portò un assegno di 60 milioni per fargli un libretto d’opera: accettai. Dopo poco gli dissi che se avesse accettato lui, gli avrei scritto in venti giorni un album completo: così nacque L’ombrello e le macchina da cucire”. E dopo vennero L’imboscata, Gommalacca, Ferro Battuto, Strategemmi, Il vuoto; anche nell’ultimo Apriti Sesamo la mano di Sgalambro si fa sentire tra le parole di Battiato. Così come si fa sentire nelle sceneggiature di Perduto amor, Musikanten, Niente è come sembra. Il pubblico di Battiato, certo, era abituato a tutt’altro genere di cose e col tempo dovette abituarsi anche a Sgalambro, che salì sul palco in tutte le tournée. Il rapporto tra i due intellettuali, tuttavia, non si può dire che sia stato di amicizia: “Anche perché – conferma Sgalambro – io non sono un grande seguace dell’amicizia. Con Battiato abbiamo avuto lunghe liti, che duravano parecchio. Poi uno dei due, in genere lui, telefonava e il rapporto riprendeva. Tutti i litigi erano per un rigo da cambiare in una canzone: io non accettavo le esigenze della musica e per lui questo era costoso. Il suo impegno in politica? Non ho mai capito come si sia potuto lasciare tentare, tutti i giorni ho cercato di convincerlo a levarsi, solo ora per fortuna sta tornando in se stesso”.
Non tutti sanno, peraltro, che il rapporto tra Sgalambro e lo spettacolo non si è fermato a Battiato: ha scritto canzoni per Patty Pravo, Fiorella Mannoia, Carmen Consoli, Adriano Celentano e molti sono affezionati al suo riadattamento filosofico di Accetta il Consiglio, tratto da The Big Kahuna. Così, quello che era nato per gioco, divenne un lavoro, un radicale cambio di approccio alla quotidianità, dal pensiero filosofico al mondo dello spettacolo: “Lo feci perché ero devoto al caso. Ho sempre preso quello che è venuto, purché non mi sviasse da me stesso: portavo l’ombra del pensare anche in queste cose”.
Nella musica, infatti, Sgalambro porta l’impostazione nichilista che lo spinto a imporre anche sui testi più leggeri quell’inconfondibile sguardo ironico, sarcastico, sulle cose del mondo: “Indubbiamente questa visione è nell’intimo di me stesso. Per un nichilista le cose – il Papa, Mussolini, un vaso di terracotta – si equivalgono. Questo non significa che non si ha il senso di ciò che vale: significa piuttosto che si prova a romperlo come si può, per esempio con il martello del pensare”.
Con lo stesso martello ha mandato in frantumi tutti i conformismi sulla Sicilia degli stereotipi: di Sciascia ha parlato come di “un maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere” e persino della mafia ha parlato come di una “realtà indistruttibile”. “Considero la Sicilia come un fenomeno estetico – conferma – e non ne cambierei nulla. In questo senso potrei dire che mi considero un mafioso…”.
Mentre si è “distratto” con le canzoni, non si è mai interrotta la scrittura filosofica, tanto che nel 2012 ha pubblicato con Adelphi Della Misantropia e nel 2013 con Bompiani Variazioni e capricci morali: “Non mi sono mai distaccato dal pensare. Del resto tutto il secondo Novecento italiano è stato di una povertà filosofica straordinaria: io venivo letteralmente venerato e c’era chi chiedeva di baciarmi la mano, incontrandomi. Tuttora io cerco di vedere se posso ancora cambiare ciò che sembra essersi ossificato, sarà per questo che ho anche cambiato editore”. “I miei libri – spiega – vogliono essere libri senza autore, o di un autore in una continua negazione di se stesso in questa qualità”. In realtà, però, ogni parola di Sgalambro è impregnata della sua personalità. Lui stesso, dopo averci pensato qualche minuto, trova la voglia e l’orgoglio di riconoscersi “svelato” in un testo: “Mi viene in mente De coelo, che è una parte di De mundo pessimo. È un testo breve e filosoficamente rigoroso, tuttavia penso che lasci emergere una certa bellezza, nel senso romano del termine, come di quelle statue di marmo che ad un tratto, scavando, si scoprono”. “Forse questo lo si scoprirà solo vent’anni dopo la mia morte – conclude -… Non che questo mi faccia affrettare a morire!”.