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October 01 2012
Scompare oggi forse l’ultimo testimone della Shoah: Shlomo Venezia, l’unico sopravvissuto in Italia, tra una dozzina nel mondo, al Sonderkommando , la Squadra Speciale del campo di Auschwitz- Birkenau . Il solo uomo che poteva aiutare Roberto Benigni nella stesura di “La vita è bella ”.
Della sua tragica esperienza, Shlomo Venezia ci ha lasciato una testimonianza preziosa, il suo libro Sonderkommando Auschwitz (Rizzoli ). Che tocca le corde più profonde dell’anima e solleva domande senza risposta sulla crudeltà perpetrata. È il libro che mi ha straziato il cuore.
Questa è la più triste, vera e cruda storia che si possa mai leggere. La storia di un uomo, la storia di mesi atroci di Shlomo Venezia e di tanti altri, milioni come lui, deportati ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.
La narrazione di Sonderkommando Auschwitz inizia dalla morte improvvisa del padre, quando Shlomo aveva solo 11 anni, fatto che mise la famiglia in una grave posizione, economica prima di tutto. Poiché il padre era stato un ex combattente della Prima Guerra Mondiale ed era cittadino italiano, la famiglia poteva godere di alcune agevolazioni, tra le quali ricevere cibo, anche se mai sufficiente per tutti.
Su circa sessantamila ebrei di Salonicco, gli ebrei italiani erano al massimo trecento. E gli iniziali vantaggi legati alla cittadinanza cessarono quando, l’8 settembre 1943, ci fu la rottura dell’Alleanza con la Germania. Il Consolato Italiano, nella figura di Guelfo Zamboni, non era più in grado di aiutare le poche famiglie di ebrei italiani. Il console aveva comunque salvato circa duecentottanta persone fornendogli documenti falsi e, nel 1992, ricevette in Israele il titolo e la medaglia di Giusto tra le Nazioni.
Prima della deportazione tre erano state le occasioni che ebbe Shlomo per sfuggire alla sua sorte. Mai sfruttate. La prima si presentò quando il console Guelfo Zamboni convocò le famiglie di ebrei italiani, offrendo loro la possibilità di rimpatriare in Sicilia o di andare ad Atene, ancora sotto amministrazione italiana. La scelta fu fatale: Atene, per via dei molti affari che i responsabili delle famiglie credevano di riuscire a seguire da vicino, ma che nella realtà altro non era che una città di solo transito per gli ebrei greci.
Verso la fine del marzo 1944 (il 25, per la precisione, giorno della festa nazionale greca) i tedeschi imprigionarono in sinagoga centocinquanta uomini ebrei, tra cui Shlomo e suo fratello Maurice, e li portarono in una prigione di sosta. Quando erano ancora intrappolati in sinagoga, si presentò la seconda opportunità per la fuga, ma anche questa volta nulla accadde, perché la maggior parte degli ebrei di Atene non sapeva delle deportazioni fatte a Salonicco. Speravano di essere salvati facendo quello che veniva loro ordinato dai tedeschi. Era disgraziatamente vero il contrario.
Nella descrizione dell'ultima possibile via di fuga dal treno della morte che stava conducendo Shlomo e la sua famiglia con i cugini Dario e Yakob Gabbai verso la destinazione di non-ritorno, la sensazione del panico che in un attimo serpeggia e gela ogni intento che non sia la resa, è vivido come un'immagine: urla e pianti, e la certezza per la prima volta urlata che nessuno sarebbe sopravvissuto.
Dopo un viaggio durato undici giorni attraverso Grecia, Jugoslavia e Austria, l’11 aprile del 1944 l’arrivo all’inferno: sulla Judenrampe di Auschwitz-Birkenau. Da lì l’inizio della fine.
Su duemilacinquecento ebrei arrivati con il convoglio di Shlomo, trecentoventi uomini (tra cui anche il fratello e i cugini di Shlomo) e trecentoventotto donne (compresa la sorella maggiore, Rachel) furono immatricolati e destinati ai vari settori del campo. Per tutti gli altri, comprese la madre e le sorelline minori, Marica e Marta, la destinazione finale è stata, subito, la camera a gas.
Da qui inizia la seconda vita di Shlomo Venezia, assegnato al Sonderkommando, il Comando Speciale, il cui compito era lo smaltimento e la cremazione dei corpi dei deportati uccisi mediante il terribile gas Zyklon B . Fondamentalmente il lavoro consisteva nell’eliminare le prove di quello che realmente stava accadendo. Una vera immersione, resa ancor più vivida dalle illustrazioni, riproduzioni di opere di un altro sopravvissuto, David Olère, nel cuore dell’inferno, dove la malvagità imperava su tutto e su tutti e dove non esistevano più uomini, persone, bambini, ma numeri, pezzi e poi scarti; dove si andava alle camere a gas attraverso una marcia della morte, a molti sconosciuta, da molti sospettata, ma da nessuno realmente immaginata. La grande malvagità dell’istituzione di queste squadre rappresentò il più grave crimine perché le SS cercarono attraverso il Sonderkommando di scaricare, o meglio condividere, il crimine sulle vittime stesse.
Shlomo è un sopravvissuto, e come molti altri autori che hanno scritto le terribili, preziosissime pagine della Memoria non c'è una vera condanna: c'è constatazione, cronaca, pura narrazione.
I fatti vengono raccontati così come si sono svolti. C'è l'assurda consapevolezza che niente passerà mai, che la vita iniziata nel campo, da lì non è mai più emersa…
Nel cuore di chi è tornato resta la malattia dei sopravvissuti, quella sensazione che ti paralizza non appena si prova un po’ di gioia, quando tutto pare andare bene, e la disperazione assale di nuovo, più forte di sempre, e la sofferenza morde, più affamata che mai.
Shlomo Venezia, Sonderkommando Auschwitz, Rizzoli (2007)