Lifestyle
March 17 2022
Con un gesto pieno d’abitudine, la sigaraia pesca una manciata di tabacco dal grembiule che tiene sulle gambe. Le sue mani fanno da bussola e bilancia: sanno esattamente dove andare e quanto prendere. Le sue dita sono mattarelli e pettini: lisciano le foglie, ne sciolgono i nodi affinché l’aria, una boccata dopo l’altra, le potrà percorrere senza ostacoli. Correrà dentro, spedita e libera. I movimenti che la sigaraia ripete sono veloci, precisi, ipnotici: il velo di colla pennellato sulla fascia, la parte esterna del sigaro; il ripieno collocato al centro, arrotolato, poi tagliato nella giusta misura. Con grazia decisa, per almeno 500 volte al giorno: «È difficile, ma è bello sapere che da te nasce qualcosa fatto bene» sorride Daniela, 41 anni. «È un dono, che richiede dedizione.
È un lavoro che non cambierei mai, lo faceva anche la mia bisnonna» ricorda Monica, 43 anni. «Mi piace, l’ho scelto, perché mi rende un’artista» aggiunge seria Maila, 48 anni. Sono tre delle 40 donne («questo mestiere non fa per gli uomini, ci vuole troppa pazienza» ripetono in tante scherzando) che lavorano a Lucca per tramandare il rito del sigaro Toscano, non condannarlo all’estinzione per obsolescenza. Il frutto è il lusso di un piacere realizzato a mano, da più di due secoli.
Un prodotto nato per caso, anzi per nubi: era il 1815 quando un inatteso temporale estivo bagnò una partita di tabacco lasciata a essiccare al sole. Anziché gettarlo («il tabacco è come il maiale, non si butta via niente» recita un detto popolare), se ne fece un sigaro economico, che però piacque moltissimo, andò esaurito con la rapidità di una perturbazione agostana. L’acqua aveva innescato un processo di fermentazione, capace di conferirgli un carattere inconfondibile. Da eccezione, divenne standard. Lo stesso tramandato fino a oggi, come la liturgia fisica, analogica, che ancora lo orchestra.
Senza mettersi a improvvisare danze della pioggia, piuttosto immergendo il tabacco dentro vasche, poi facendolo sgocciolare e lasciandolo nelle celle dove riposa a fermentare. Restituendo, tra corridoi e magazzini, un perenne odore vivo: di terra, cuoio, natura. Siamo nella sede principale di Manifatture Sigaro Toscano, che stringe nel nome una territorialità e la propensione all’artigianalità. «Sembra di essere fuori dal tempo» dice l’amministratore delegato Stefano Mariotti: «Continuiamo a tramandare un’eredità di 200 anni. Un’evasione, una coccola che facilita una riflessione tra sé, agevola una socialità». Contiene il privilegio di custodire l’orgoglio di una diversità: «Siamo unici al mondo. Nessuno ha le nostre forme e il nostro tabacco».
La materia prima è la varietà Kentucky, un’eccellenza di nicchia, la base di ogni ricetta: l’azienda acquista circa il 95 per cento della produzione italiana. «Arriva da 200 coltivatori che fanno parte della nostra famiglia. Abbiamo messo a loro disposizione una serie di agevolazioni e sussidi che li invogliano a proseguire in questa avventura, affinché pure il loro mestiere abbia un futuro». È tradizione che si sposa con l’innovazione, o forse giusto con il buon senso: l’atelier del Toscano è ricoperto da pannelli fotovoltaici, che ne coprono il 70 per cento del fabbisogno energetico. Oltre a fare da tetto e tenere all’ombra i parcheggi, riparano dai continui rincari in bolletta: «Siamo stati lungimiranti» commenta Mariotti «perché teniamo molto ai valori della sostenibilità. Le confezioni che usiamo sono in carta riciclata, lo è quasi per intero il cellophane che adoperiamo. Come il sigaro va usato responsabilmente, vogliamo essere responsabili nel nostro impatto».
«Da due secoli vediamo il nostro lavoro andare in fumo, eppure resistiamo» si presenta con una battuta Terry Nesti, responsabile della formazione clienti e guida di Panorama nel viaggio dentro la sede di Lucca. Divisa nell’area dedicata alla preparazione delle materie prime, quella della lavorazione vera e propria, la zona dedicata a essiccazione e maturazione: «Come il vino, il sigaro ha bisogno di tempo prima di essere fumato. Occorre almeno un anno d’invecchiamento». Che avviene in celle ad hoc, alcune custodite in un caveau, uno scrigno dedicato ai pezzi più pregiati della collezione. Quelli in cui domina l’artigianalità, estesa, a volte, finanche al riempimento delle confezioni. L’ennesimo accento di cura.
Inaugurata nel 2004, la manifattura si trova appena fuori città: ha preso il posto di quella storica, collocata dentro le mura e ormai obsoleta per gli standard produttivi contemporanei. Comunque, la nuova, è ricca di splendide tracce storiche: una botte in cui veniva trasportato il tabacco (oggi viaggia in più comodi cartoni); «l’imparziale», un timer che suonava a intervalli regolari, imponendo «il frugo»: la perquisizione degli operai all’uscita, per assicurarsi non portassero via prodotti che dovevano, e devono, essere tassati dallo Stato. Oggi c’è un presidio della Guardia di finanza, che per sorvegliare sulla regolarità delle operazioni ricorre a metodi meno creativi.
In un angolo, a sorpresa, ecco un girello di legno: «La manifattura» racconta Nesti «è stata la prima azienda in Italia ad avere un asilo nido». Merito delle rivendicazioni delle sigaraie, «tra le figure più importanti per la storia femminile del nostro Paese. Sono state le prime a lasciare i campi e la famiglia e portare uno stipendio a casa. Hanno lottato per i loro diritti, ottenendo la parità salariale con gli uomini». È forse per questo, per la forza della loro storia, che sono ancora qui, a realizzare circa 2,5 milioni di pezzi l’anno, i più pregiati del vasto catalogo Toscano, venduto in 60 Paesi. Consapevoli che non c’è margine per improvvisare: la formazione è intensa, lunga. Dura 18 mesi: «E ogni giorno è una piccola sfida. Nessun sigaro sarà uguale all’altro, è un esemplare unico» ricorda Valentina, 37 anni. Zittendo perplessità e pregiudizi, sciogliendo il quesito di dove sia il fascino di mantenere la concretezza, la persistenza della memoria, nell’epoca evanescente del digitale.