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April 10 2018
Trump sembra deciso a colpire la Siria. Più precisamente su quella parte di Siria governata da Bashar Al Assad, indicato come un «animale» dall’inquilino della Casa Bianca per aver lanciato l’ennesimo attacco chimico contro la popolazione civile. Questa volta, anche se il fatto è ancora da verificare, si tratta di Douma, porzione della Ghouta orientale che il governo di Damasco — insieme con i russi — sta cercando di espugnare da anni per mettere in sicurezza la capitale e riprendere il controllo della regione.
Qui sabato 7 aprile si sarebbe consumato un bombardamento chimico costato la vita a decine di persone, tra cui numerosi bambini. Ora come in passato, le verifiche sia russe sia delle Nazioni Unite sul campo (quando possibili) sono contrastanti e parziali, e non hanno mai fornito prove certe dei misfatti. Ciò nonostante, la brutalità usata dal regime — le bombe al fosforo, le torture, le distruzioni indiscriminate, eccetera — è sotto gli occhi di tutti. Da Aleppo in avanti, la tecnica russo-siriana per fiaccare la resistenza è consistita nel fare macerie di ogni forma di opposizione, che si tratti di un palazzo, un ospedale, una milizia o una famiglia inerme.
Il presidente americano ha detto che non è possibile «consentire atrocità come questa. Stiamo parlando dell’umanità, non possiamo permetterle» sono state le sue parole ammiccanti alla possibilità di colpire militarmente il regime di Damasco.
La Sesta Flotta della Marina Militare statunitense, è schierata nel Mediterraneo e la sua potenza di fuoco è nota. Senza contare l’aviazione, che da molti mesi sgancia bombe sopra i cieli siriani per colpire i jihadisti.
Difficile in ogni caso, dopo sette anni di guerra, giudicare da quale parte stia la verità e la ragione. Di certo, si continua a combattere perché, a questo punto, nessuno ha più niente da perdere, considerato che la Siria non esiste più quale entità statuale né potrà tornare quella di un tempo. Molti sono pertanto gli obiettivi, tutti secondari alla salvaguardia del popolo siriano, e incentrati invece sulle rispettive politiche che ogni attore persegue.
Come noto, la Russia è il paese più coinvolto nel sostenere il morente regime di Bashar Al Assad che, proprio grazie agli sforzi del Cremlino, è riuscito nella straordinaria impresa di non collassare. A dare man forte a Damasco ha contribuito molto anche un altro alleato di ferro, l’Iran, che ha saltato con entrambi i piedi il fossato e che adesso è coinvolto al cento per cento nel tentativo di assoggettare la Siria di Assad al suo volere.
Scopo comune di questa “triplice alleanza” è la costruzione di un futuro sciita per il Medio Oriente, dove gli amici di Mosca possano ricomporre sotto la sua tutela un fiorente mercato delle energie, che passa anzitutto per l’elettricità e le pipeline di gas e petrolio.
Dall’altra parte della barricata, c’è invece una “triplice alleanza” composta da Stati Uniti (cui si aggregano per consonanza Francia e Regno Unito), Israele e Arabia Saudita. Un’alleanza che, oltre al discorso dei diritti umani — di cui l’Occidente si accorge a intermittenza e piega volentieri a proprio vantaggio ogni qual volta ce n’è bisogno — vede come un incubo la possibilità che si realizzi il progetto bramato da Russia e Iran.
Se, in definitiva, non si possono biasimare gli intenti della “triplice alleanza” di voler abbattere il dittatore siriano, tuttavia la sua scomparsa passa inevitabilmente per ancora più sangue e maggiori atrocità di quante non se ne siano viste sinora. Inoltre, la sua cacciata aprirebbe a nuove incognite, molte delle quali foriere di una possibile guerra di ancor più vaste dimensioni, dove in particolare Israele e Iran potrebbero arrivare allo scontro diretto.
Il che, come evidente in sé, sarebbe una catastrofe per l’intero Medio Oriente e scatenerebbe reazioni a oggi imprevedibili agli stessi azionisti di maggioranza, ovvero Russia e Stati Uniti, che sinora hanno cinicamente usato la loro influenza per determinare gli eventi, pur mantenendo le distanze di sicurezza minime indispensabili a non scivolare in una guerra mondiale.
Il punto è capire se, ad esempio, un paese come Israele continuerà nella sua politica della deterrenza che lo ha contraddistinto negli anni o, seppure, si è convinto di essere al punto di non ritorno, tale per cui la sola possibilità di garantire la sicurezza del proprio territorio viene considerata quella di un attacco diretto. Contro Assad, e dunque contro l’Iran.
Si tratta ora di capire se le intenzioni degli Stati Uniti sono tornate a essere quelle del “poliziotto del mondo” che rintuzza ogni esasperazione bellica quale l’uso indiscriminato di armi chimiche, o se esiste un piano più strutturato per fermare una volta per tutte Bashar Al Assad. Il cui futuro, nell’un caso e nell’altro, appare appeso a un filo.