Economia
July 24 2020
È nato dall'esigenza di una sperimentazione: «Alcune imprese, le più evolute, stavano cominciando a spostare il lavoro dai luoghi fisici tradizionali ad altri che non erano necessariamente le mura domestiche». La sua premessa, più che strutturale o figlia del tempo, era dunque logica: «Non si trattava di un trasferimento soltanto fisico, ma che richiedeva una riorganizzazione dell'intera struttura organizzativa dell'impresa. Un modo diverso di considerare la prestazione lavoro».
Finché, con l'esplosione del coronavirus, da concetto affascinante quanto un filo esotico, da nicchia, lo smartworking è diventato una necessità improcrastinabile, l'unica via per molte realtà per garantirsi una sopravvivenza sul mercato. Una cogenza che nasconde una grande opportunità: «Lo strumento libera da due vincoli, il tempo e il luogo. Si può essere lavoratori subordinati senza timbrare il cartellino e recarsi in ufficio; ci si può muovere in una gerarchia organizzativa con spazi di autonomia sempre maggiori per produrre un risultato» riassume a Panorama.itMaurizio Del Conte, ordinario di diritto del lavoro all'università Bocconi di Milano, presidente di Afol Metropolitana, Agenzia Formazione Orientamento Lavoro e autore della legge italiana che oggi regola lo smart working. È dunque l'interlocutore ideale per ragionare su cosa funziona, e cosa meno, di questa rivoluzione in atto. Dove porterà e come aiutarla a dare il meglio di sé.
Intanto, qualche dato di cornice. Lo smart working interesserebbe oggi 8 milioni di persone, contro i circa 600 mila che nel 2019 erano stimati dal Politecnico di Milano. L'aumento vertiginoso della popolazione coinvolta è evidente, le ragioni palesi. Ci sono poi le conclusioni contenute in un nuovo report realizzato da Lenovo, «Technology and the evolving world of work», secondo cui due intervistati su tre (il 63 per cento) si sentono più produttivi lavorando da casa rispetto a quando erano in ufficio, il 52 per cento ha detto che vorrà continuare a farlo anche una volta cessata la pandemia. Insomma, almeno una volta su due, lo smart working fa centro, piace a chi lo prova. È una formula indovinata: «L'importante è non ricadere nello schema vieto del telelavoro, che significa riproporre tra le mura di casa le stesse dinamiche dell'ufficio» osserva Del Conte.
Professore, partiamo dalle basi. Cosa rende lo smart working intelligente come l'aggettivo che, accompagnandolo, lo definisce?
Semplice. Meno connessione, più responsabilità, autogestione. Quella a cui invece spesso assistiamo è una remotizzazione delle professioni. Che contiene una deriva: l'impressione che i lavoratori siano sempre disponibili. La maggiore criticità riscontrata durante il lockdown è che sono saltati i confini tra vita personale e non: il lavoro è esondato dove non doveva. Sono venuti meno i sabati, le domeniche, le vacanze. Ci si sentiva sempre sotto pressione. Da qui, per tanti, un'amplificazione dello stress.
Quando invece, parole sue, uno dei cardini è la responsabilità del lavoratore. La capacità di determinarsi in autonomia.
Premettiamo che tutto il lavoro non può essere fatto da remoto, che le imprese sono strutturate anche per rendere possibile un confronto personale. Diciamo dunque che è necessario ridisegnare pure le forme di coordinamento. Abbiamo imparato che internet, gli smartphone, Zoom, Teams e altri strumenti lo rendono possibile. Il punto vero non sono dunque le possibilità tecniche, ma l'atteggiamento che le accompagna.
Si spieghi meglio.
Come spesso capita in Italia, si assiste a reazioni di tipo partigiano, a divisioni in tifoserie. Chi è a favore dello smart working, chi è contro. Punto e basta. Ma gli schieramenti basati su simpatie e antipatie, non aiutano. Dobbiamo necessariamente trovare una quadra, altrimenti resteremo indietro rispetto agli altri Paesi nostri concorrenti. È prioritario superare gli elementi critici per evitare lo stress ai lavoratori e una minore produttività delle imprese.
Chi deve individuare questo equilibrio?
Non con un altro massiccio intervento del legislatore, questo è poco ma sicuro. Sarebbe la morte dello smart working. Il compito spetta alle imprese, non è una decisione che può essere imposta dall'alto, indifferentemente, in modo orizzontale. Non esiste una taglia adatta a tutti, ogni azienda deve chiedersi e capire quanti e quali lavoratori possono fare ricorso a questo strumento. E poi ci sono aziende a cui non si adatta. Riesce a immaginare una fabbrica che costruisce un'automobile in smart working?
Però così i rapporti di forze non rischiano di essere unilaterali, di uscirne sbilanciati?
Non se la contrattazione collettiva fa la sua parte. Se si batte per rendere davvero flessibile l'orario di lavoro, se ne svecchia il concetto. Se evolve a sua volta.
Per esempio?
Per esempio, oggi il lavoro notturno viene pagato di più, come pure quello festivo. Non ha senso quando a contare sono i risultati, gli obiettivi. Io posso essere più produttivo di notte, dopo cena, la domenica, non per questo merito una remunerazione maggiore. Ripeto, non è una questione di norme, ma di capacità di andare oltre i paradigmi tradizionali. Pensiamo anche alla tutela dei diritti della salute delle persone. Sul posto di lavoro tradizionale, lo sforzo è garantire un'interazione sicura con le macchine, in quello da remoto si sostanzia nell'evitare il reiterarsi di quelle condizioni che caricano di pressioni e stress esagerato.
Altre raccomandazioni?
Non farne assolutamente un discorso di genere, sarebbe un errore drammatico dare preferenza alle donne anziché agli uomini perché ne uscirebbe una segmentazione del lavoro ulteriormente falsata. Viziata da un pregiudizio. Lo smart working è come un abito su misura che va cucito addosso alla realtà della singola impresa. Non bisogna ingabbiarlo a priori, cedere alla tentazione di incasellarlo a tutti i costi, per principio. Si finirebbe per trasformarlo nel suo opposto, per renderlo poco smart.