Tecnologia
July 08 2019
Una premessa di fondamentale importanza: questo non è il solito prontuario agile per disintossicarsi senza traumi dall’ipnosi dello schermo. È un approccio brutale che impone sacrificio. Se le diete non sono il vostro forte, in particolare quelle da smartphone e altri gingilli hi-tech, passate pure al prossimo articolo. Qui si parla di «Minimalismo digitale», titolo dell’omonimo libro appena pubblicato in Italia da Roi Edizioni. Sottotitolo, grondante ambizione: «Rimettere a fuoco la propria vita in un mondo pieno di distrazioni». «Il minimalismo digitale è una filosofia dell’uso della tecnologia, secondo la quale bisogna per prima cosa capire come si vuole impiegare il proprio tempo, individuare cosa importa davvero per noi, cosa ci soddisfa. A quel punto, scoprire in che modo la tecnologia può aiutarci a centrare quell’obiettivo». A illustrare la formula con tono accademico a Panorama è l’autore del volume, Cal Newport: un professore di scienze informatiche alla Georgetown University di Washington, diventato famoso in mezzo mondo per i suoi manuali tradotti in oltre 20 lingue. Incluso questo, finito nella classifica dei best seller del New York Times.
Cos’ha di tanto speciale? Scremati i discorsi non proprio inediti su quanto siano arcigni i programmini installati sul nostro cellulare («i magnati dei social media devono ammettere che sono produttori di tabacco in jeans e t-shirt, impegnati a vendere ai giovani sostanze che creano dipendenza» tuona un passaggio), Newport si propone di guarirci: di prenderci per mano e spiegarci come liberarci di «applicazioni ingegnerizzate per fomentare un uso compulsivo». Come farne a meno, finché non ci appariranno tanto desiderabili. Il suo metodo si chiama «decluttering digitale», termine che richiama il fare ordine, lo sbarazzarsi delle cose inutili: l’ha testato su circa 1.600 volontari, la maggior parte dei quali sono arrivati fino in fondo. E adesso lo propone ai suoi lettori.
Il primo step è fare piazza pulita del superfluo: «Prendersi trenta giorni di pausa dalle tecnologie opzionali. Social media, streaming di video, giochi». La chat di LinkedIn vi serve per parlare con i colleghi o intercettare clienti? Rispondete pure, nessuno vuole mandarvi in fallimento. Quella di Facebook su cui transitano giusto filmati cretini, invece, è bandita. Vietata. Come tutte le puntate della serie tv che aspettate da tempo o quel rompicapo ludico che vi incolla per ore sul display. Più sms e meno WhatsApp, al bando like e retweet di cortesia: «Raccomando questo approccio drastico» commenta Newport «perché se ci si limita ad aggirare le proprie abitudini – per esempio spegnere le notifiche, spostare le icone dei social media fuori dalla schermata principale del telefono – sarà difficile accendere la scintilla di un cambiamento permanente».
La ricompensa per tanto coraggio, almeno all’inizio, è un incubo nerissimo. Un vuoto ansiogeno. Ci si ritrova tra le mani un bottino di tempo libero, quello che prima si sperperava tuffandosi in qualche schermo. Soprattutto, non si ha idea di come riempirlo. È qui che la strategia di Newport diventa ambiziosa e responsabilizzante: dobbiamo colmarlo con attività analogiche, sociali nel senso originario del termine. Cose da fare con altri che, oltre alla vista, coinvolgano il tatto (non il touch), l’udito, il gusto. Ci sono trenta giorni per sperimentare, sbagliare o sbadigliare, ricominciare e azzardare: sport classici, estremi e strambi, corsi di lingue, giardinaggio o cucina, rimpatriate con vecchi compagni d’università e aperitivi, appuntamenti per dirsi di persona quello si racconterebbe in una storia Instagram. Vi sembra da pazzi? È ovvio, siete malati, la vostra prospettiva è totalmente distorta. È banale? Allora fatelo.
Passato un mese di stoica, massiccia astensione, ci sono due strade: o si ritorna al punto di partenza frustrati dal proprio insuccesso (ma sollevati della connessione ritrovata con i vecchi sollazzi) o si mette a frutto il martirio. Capendo come la tecnologia può facilitarci nell’organizzare meglio le nostre riscoperte. Se abbiamo compreso che adoriamo andare a pedalare nel weekend con un gruppo di ciclisti della domenica, non avrebbe senso non unirsi al gruppo WhatsApp in cui ci si danno le informazioni logistiche, dove ci si ritrova, si fa la lista di chi porta cosa per il pic-nic a destinazione: non possiamo pretendere che qualcuno ci telefoni e ci faccia il riassunto o ci declami i passaggi chiave. Possiamo invece imporci di leggere il delirante flusso di messaggi una o due volte al giorno: non siamo responsabili del tracciato del Giro d’Italia, nessuno si offenderà se rispondiamo a singhiozzo.
A contare, è la sostanza: «Il divertimento di qualità è un ingrediente fondamentale di una vita piena di significato» dice Newport. «Uno dei più grossi danni collegati alle tecnologie che danno dipendenza» aggiunge «è il regalarci potenti distrazioni che prosciugano la nostra motivazione verso attività più soddisfacenti». Il minimalismo digitale s’impone di governare le interferenze non rilevanti, mentre oggi a dominare è l’opposto, il massimalismo. Quello che l’autore definisce «una ricetta per l’infelicità»: «Per un massimalista, chi si perde una app o un servizio tecnologico di qualsiasi utilità, è come se stesse perdendo un valore. Ma quando si sprecano tempo ed energia andando a caccia di ogni singolo frammento di valore, si trascura ciò che invece fa stare bene davvero». «Ecco che il professore americano paragona lo smartphone a una slot machine: ogni volta che lo si accende è come tirare una leva in un casinò. Tra post, storie, foto e video pubblicate che chiamano like, cuoricini e commenti, «a volte si può ottenere molta approvazione sociale, a volte nessuna, altre solo un po’. Tale tentazione diventa velocemente irresistibile». Sbirciamo di continuo lo schermo, perché sedotti dall’idea che ci possa essere qualcosa dentro ad aspettarci. Ma se con questo gioco non è chiaro cosa si vince, ancora meno lo è l’universo di piaceri che ci stiamo perdendo nel frattempo.
1) Per trenta giorni, smettere di usare le tecnologie personali opzionali, ovvero tutto ciò che utilizziamo per distrarci: social network, contenuti in streaming o videogiochi.
2) Sforzarsi di scoprire cosa vogliamo fare davvero del nostro tempo libero. Per riuscirci, sperimentare: imparare cose nuove, iscriversi a un’attività, organizzare eventi sociali.
3) Trascorsi i trenta giorni, ricostruire daccapo la propria vita personale digitale da un’altra prospettiva: chiedendosi come la tecnologia possa migliorare quelle nuove attività scelte per vivere il proprio tempo libero.
4) Massimizzare il vantaggio e minimizzare i danni della tecnologia. Se per esempio Facebook ci serve per organizzare le attività e gli appuntamenti di un gruppo, usarlo solo dal computer, non dallo smartphone.