Sole Cuore Amore, il cinema dei “sotterranei” – La recensione
La folla senza volto delle periferie.
Quella che si leva presto al mattino e rientra la sera tardi, che viaggia sui mezzi pubblici, che subisce il datore di lavoro quando il lavoro ce l’ha ed è già qualcosa, che ovviamente non arriva alla fine del mese. Ecco la gente che mulina attorno a Sole Cuore Amore (uscita il 4 maggio) di Daniele Vicari, cinquant’anni e quinto film oltre diversi corti e documentari, del quale sempre molto volentieri si ricordano – fra l’altro - l’esordio con Velocità massima (2002) e il successivo, penetrante, seduttivo e ingiustamente sottostimato L’orizzonte degli eventi (2005).
La periferia è quella romana. Più che periferia, anzi, un agglomerato costiero – presumibilmente i paraggi di Ostia o Nettuno – che rientra in quella che si definisce, già tristemente, “area metropolitana”. E di tristezza, la vicenda che colà si sviluppa, oscillando come un pendolo implacabile tra un’abitazione iperperiferica e un bar semplicemente periferico, ne ha da vendere.
Come la sua protagonista Eli (Isabella Ragonese), che non ha molte buone ragioni per essere allegra, quattro figli piccoli, un marito disoccupato, sveglia alle quattro e mezzo del mattino, viaggi interminabili tra autobus che si guastano e metropolitane gremite, ritardi inevitabili come i rimbrotti, pure bonarii, di Nicola (Francesco Acquaroli), padrone del bar dove lavora tra caffè, cappuccini, aperitivi e sorrisi stampati.
Le viaggiatrici dell’hinterland
Vale (Eva Grieco), al contrario di Eli, si alza dal letto tardi e ci ritorna all’alba perché fa la ballerina. O, più correttamente, la performer che, con movimenti plastici e lente volute danzanti, si esibisce qua e là tra discoteche, circoli culturali, gallerie d’arte. Anche lei, come Eli della quale è vicina di casa, viaggiatrice dell’hinterland.
Solo che lo fa in orari diversi. Si può dire che quando l’una esce di casa l’altra vi ritorna. E viceversa. Nonostante queste opposte dinamiche le due donne sono “amiche”. Nel senso che si frequentano poco ma s’aiutano quando càpita, s’incrociano di tanto in tanto – sotto casa, a una stazione del metró, a una fermata d’autobus - scambiandosi sguardi e segrete complicità provenienti anche dalla passione comune per il ballo che anche Eli avrebbe voluto praticare.
Il ballo come specchio di emozioni
La vita, a suo modo drammatica e sessualmente perplessa di Vale la si segue attraverso il moto del ballo, nella pantomima attraverso la quale ella comunica, prevalentemente, le proprie emozioni. Eli, invece, ha un’esistenza più semplice e diretta, ancorché tosta e indigeribile tra orari schiantanti, lavoro al bar, traversate interminabili e accidentate, pochi soldi nella cassa di famiglia.
Uno sfinimento che l’amore attento e morbido di suo marito Mario (Francesco Montanari) non basta a mitigare. E neppure è sufficiente a fermare la malattia al cuore che prima la lambisce poi, a poco a poco, la sfianca: lasciandola appesa ad un filo oltre ogni ragionevole possibilità di resistenza.
Il film vive su queste storie parallele. Due donne, due percorsi. Dominante quello di Eli, sia nei volumi narrativi, sia nell’approfondimento di quelle tematiche sociali che il cinema di Vicari tende sempre ad evocare con una certa energia. Qua, addirittura, con aspirazioni pure “sociologiche” riposte non solo nei casi della protagonista ma anche in quelli degli altri personaggi, tutti alla mercé di una ingovernabile défaillance dell’equilibrio collettivo in contesto (sub)urbano. Una umanità infetta, contaminata da un virus espropriante e pauperizzante capace di marchiare ogni possibile status con il “de” prefisso privativo: dunque destabilizzata, delocalizzata, destrutturata. Infine demoralizzata.
Rappresentazione della quotidianità
Realismo, a tratti naturalismo e minimalismo. Nei dialoghi scarni, spontanei ed elementari, nelle immagini dense e cromaticamente calde, nello processo lineare del racconto e nei ritmi regolari del suo montaggio alternato su Eli e Vale (soggetto e sceneggiatura sono dello stesso Vicari, la fotografia è di Gherardo Gossi).
In questa rappresentazione del quotidiano, in alcuni passaggi spoglia e quasi di cronaca nella ripetitività che insegue e incatena i suoi personaggi, Sole Cuore Amore non si nega qualche simbolismo che proprio lo scorrere della quotidianità e le forzate abitudini suggeriscono: il più evidente e significativo nell’iterazione angosciosa e quasi fobica delle rotte in metropolitana, vagoni intasati, sguardi perduti, stazioni gelide di cemento e luci al neon. Una replica infinita, un ritorno ciclico a passo veloce che scandisce nei tempi e nei modi la dimensione sotterranea di quella umanità invisibile.
Alla ricerca della leggerezza
Certo, il quadro è livido, ansiogeno, angosciante. La speranza, insomma, è chiusa a chiave nel cassetto.
E la mano di Vicari è un po’ pesante, negandosi quell’atomo di leggerezza (penso a Virzì) che potrebbe regalare alla storia di Eli e del suo cappottino rosso come i cromatismi dominanti della visione – delicata, dolente e sofferta la recitazione di Isabella Ragonese – un tono meno mesto e più incline a sottolineare, anche poeticamente, i sentimenti e le interiorizzazioni.
Senza, con questo, togliere spessore ai necessari accenti drammatici e ai suoi risvolti emotivi.
Restano comunque bene incise quelle figure femminili e la loro sostanza solidale plasmate da una regìa maschile singolarmente ma abitualmente sensibile ai percorsi dell’affinità nei mondi di donne. Il popolo della periferia romana (ma potrebbe appartenere a qualsiasi altrove) è accompagnato nel suo incedere cinereo da grumi musicali jazz - alternati a sonorità elettroniche – distribuiti dal sax vivido ed elegante di Stefano di Battista.
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