La solidarietà della porta accanto

Prima era più semplice. Rientravi a casa dopo 12 ore passate fra partite doppie o estimi liguri, rassegnandoti scala dopo scala ad altre quattro di fioretto con tua moglie. La borsa del super in una mano, quella di pelle nell’altra, una mossa di karate per aprire la cassetta delle lettere, che chissà perché è sempre troppo in alto a destra. Buoni sconto per i surgelati, il Postal market che nessuno ha mai richiesto, il gas da pagare il giorno prima. E poi, immancabile, lei. Una busta. Modesta, incolore, anonima quasi. Affrancatura minima, da Benevento? E quanto c’ha messo? Dentro, un ciclostile con una foto sgranata di un bambino africano tutto pancia, pidocchi e sorriso. Dietro, un testo scritto al massimo da un sacrestano presbite. E un bollettino postale, già predisposto: 1.000, 2 mila, 5 mila lire. Al massimo, proprio per esagerare.

La solidarietà, fino a ieri, per moltissimi era questa qui. Un gesto marginale, facile, praticamente gratuito, sia economicamente che personalmente. Il controvalore delle sigarette, o di un cinema per un bambino malato e denutrito. Ci si può fidare? In fondo, per questi soldi. D’altronde l’Africa… Oggi però l’orizzonte è cambiato. Sospesi dall’esplosione del mercato globale sul baratro di spread e fiscal cliff, la solidarietà ha smesso di occuparsi di qualcosa di lontano, sconosciuto o straniero. Oggi riguarda drammi adiacenti, domestici, quotidiani. "Ieri era il bambino africano denutrito o il minatore dello Yucatan a riproporre la versione attuale della favola di Charles Dickens" dice Ivo Stefano Germano, professore aggregato di sociologia dei processi culturali all’Università del Molise. "Oggi è il ricercatore del San Raffaele, il condomino della scala B, il compagno di calcetto".

Nella prossimità tramonta anche la spettacolarizzazione, la charity urlata dal presentatore azzimato e la strappona in tacco 12. "Stanno finendo le donazioni show per un soggetto distante, fisicamente ed emotivamente" dice Giuseppe Frangi, critico d’arte e direttore del magazine non-profit Vita. "Oggi si torna alla radice. La contingenza economica e sociale ripropone circuiti di vicinanza, gruppi di autosostegno che si aiutano informalmente. Logiche di condominio, reti di famiglie che tengono i bambini per evitare le spese di asilo. L’economia sta generando un tessuto inedito, per ragioni che affondano anche nella crisi della Chiesa, dei partiti e delle agenzie che istillavano comportamenti solidali. Tutto è più destrutturato, quindi più fragile. Però anche più reale".

L’autoaiuto è il vero trend, un modello che nasce dalla cura dell’alcolismo ma si sta diffondendo su campi trasversali. Dati complessivi italiani non ne esistono, però parcellizzazioni sintomatiche sì: sarebbero 200 in provincia di Bolzano, 350 a Ravenna, oltre i 20 mila in tutto il Paese. La salvaguardia degli equilibri umani riguarda anche il territorio. Nel suo ultimo libro (Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, 240 pagine, 18 euro) Salvatore Settis spiega che in Italia sarebbero attivi 15 mila comitati spontanei per la difesa del paesaggio o per la protezione di beni culturali a rischio. Solo in Molise, contro l’eolico, sono sorti 130 comitati, quasi uno per comune.

Poi c’è il volontariato di protezione di territorio: nell’elenco nazionale del dipartimento della Protezione civile a oggi sono iscritte circa 2.500 organizzazioni, tra le quali i cosiddetti "gruppi comunali", per un totale di oltre 1 milione 300 mila volontari disponibili. Di questi, circa 60 mila sono pronti a intervenire nell’arco di pochi minuti, mentre 300 mila si attivano in poche ore.

E ci sono le Bsa, le Brigate di solidarietà attiva, nate nell’aprile 2009 in occasione del terremoto in Abruzzo. «Obiettivi delle Bsa sono stimolare l’autoorganizzazione anche nelle situazioni di emergenza, favorire la presa di coscienza delle cause del disagio e i meccanismi del suo perpetuarsi, svelare le negligenze dei meccanismi di aiuti, favorendo la costituzione di assemblee, comitati cittadini e occasioni di espressione e condivisione del proprio dissenso».

Fine della big society, fine del conservatorismo compassionevole. Si torna all’origine, alla condivisione, alla filologia. Nel IV secolo, Roma coniò il "solidum", la moneta d’oro che voleva opporsi al disfacimento dell’impero e invece creò un nuovo genere di professionista: il "soldatus", che si guardava bene dal combattere per motivi ideali. "Ecco, più che da 'solidum' la solidarietà deriva da 'solidus', un aggettivo del gergo latino giuridico" conclude Mauro Magatti, sociologo alla Cattolica di Milano. "Significa essere sulla stessa barca. Oggi si torna a questa consapevolezza: non un moto dell’animo, un gesto di attenzione o di passione per qualcosa che non ci riguarda. Al contrario, la creazione delle condizioni, sociali e istituzionali, per cui ci si riconosce come possessori di buone ragioni per stare insieme. Una consapevolezza tipica della classe operaia, che in precise condizioni storiche progressivamente maturò l’esistenza d’interessi comuni, oppure degli stati nazionali, in cui elementi culturali e istituzionali hanno creato delle solidarietà nazionali. Negli ultimi 20 anni, la globalizzazione e la società liquida hanno creato una versione iperbolica della libertà individuale, facendo crescere le opportunità individuali e culturali di ciascuno e indebolendo le forme storiche di solidarietà che per la crisi oggi si riaffacciano". Forse, proprio male non è.

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