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November 12 2024
Tornano prepotenti studi e ricerche su questa condizione, attuale più che mai soprattutto nell’epoca in cui l’invasività dei nuovi mezzi di comunicazione di massa sembrerebbe occupare ogni spazio privato e pubblico: da alcuni anni, invece, autorevoli sociologi e antropologi, psicologi sociali e storici ne stanno analizzando ogni sfaccettatura per dimostrare come -ironia della sorte- proprio oggi si corra il rischio di vivere in perfetta solitudine, come in una “bolla” capace di estraniarci dal confronto con le stesse persone che affollano la nostra quotidianità, lasciandoci muti osservatori del nostro tempo. Che pare proteso, quest’ultimo, proprio ad una condizione di “beata solitudo”.
Panorama.it ne ha parlato con il professor Musi, napoletano, emerito di Storia moderna all’Università degli studi di Salerno, allievo di Giuseppe Galasso e autore, per Neri Pozza, di una singolare “Storia della solitudine. Da Aristotele ai social network”.
Professore Musi, studio singolare il suo…
«Il punto di partenza è stato assai elementare, schematico: il doppio volto della solitudine come la condizione di abbandono, di isolamento o la scelta consapevole per il fine della pace interiore. Lo svolgimento ha complicato lo schema iniziale, sia presentando molteplici variazioni sul tema e i suoi sviluppi, sia irrobustendo il tronco cresciuto sulle sue radici, arricchendone la ramificazione».
Pur sempre una ricerca storica, capace di far emergere le figure che hanno corroborato, nei secoli, questa condizione.
«Ho ripercorso la storia della “solitudine” dalle sue rappresentazioni dall’Antichità sino alla società di massa contemporanea: ho avuto modo di imbattermi in figure iconiche sul tema, come il viandante, il pellegrino, l’eremita, il sopravvissuto, il folle, il prigioniero, l’intellettuale che sceglie la pace e la solitudine per i suoi studi, il cavaliere solitario don Chisciotte, fino all’anoressico e al bulimico, al ludopatico, al tossicodipendente, al “lupo solitario” capace di gesti estremi».
Lei parte dal mondo classico e non poteva essere diversamente…
«La solitudine è andata rivelandosi come una lente attraverso la quale rileggere la storia culturale dell’Occidente a partire dalle sue radici nell’Antichità classica. Le tappe più significative di un appassionante svolgimento hanno avuto in Euripide un protagonista indubbio: egli ha per primo mostrato la solitudine esistenziale come condizione umana nella sua natura drammatica. Quindi la civiltà romana l’ha vissuta come bipolarità fra inquietudine e scelta di vita contemplativa. Il fondatore del Cristianesimo occidentale, Agostino, ha cercato di superare la solitudine terrena dell’io peccatore attraverso la sua piena assimilazione, identificazione nel piano trascendente di Dio e della Provvidenza».
Nel Medioevo la solitudine veniva associata all’incontro con Dio.
«Attraverso eremitismo e monachesimo, la condizione di solitudine è stata la via maestra per realizzare l’avvicinamento a Dio e viverne la dimensione spazio-temporale. Anche nell’ideale della communitas medievale e nelle diverse forme e luoghi in cui è andata organizzandosi la vita tra Alto e Basso Medioevo, personalità maschili e femminili di solitari e solitarie carismatiche hanno a lungo costituito modelli di riferimento».
Il percorso moderno sul tema della sua analisi ha inizio con Petrarca e con l’Umanesimo.
«È come un ventaglio che si apre sulle diverse forme di solitudine destinate a svilupparsi nei secoli successivi: la solitudine laica del dotto, la convivenza tra sociabilità, “civiltà delle buone maniere” e fuga dal mondo corrotto, la solitudine “ragionevole” di Montaigne e la solitudine malinconica barocca, il binomio solitudine-follia. L’aristocratica solitudine dell’intellettuale si presenta con volti diversi».
Si incrociavano due piani paralleli, anzi due visioni inconciliabili…
«Per Petrarca è una condizione di vita interiore che non esclude l’esercizio delle cariche pubbliche; per Leopardi il disincanto della vita consente solo due vie di uscita, il nichilismo o il trascorrere l’esistenza fra sognare e fantasticare, abitando in “qualche liquore generoso”. Per il primo la solitudine è la via per l’avvicinamento al vero, per il secondo è la strada per allontanarsi dalla negatività del vero, del reale».
Con il Romanticismo la concezione si intreccia con le prime sfaccettature della nascente società di massa…
«Dall’Ottocento romantico ad oggi le diverse espressioni della cultura dimostrano che beata solitudine e maledetta solitudine sono sempre fra loro intrecciate in un rapporto inestricabile di collisione e collusione, ancor più inquietante nell’epoca della società di massa: condizione di possibilità, peraltro, della creazione artistica che consente di convivere con quella inquietudine».
Colpisce del suo studio il tentativo di evidenziare anche tratti della storia sociale della solitudine…
«Direi con particolare sguardo sulla gender history. Accettazione dell’inferiorità, immagine della tessitrice solitaria tra mutismo (Tacita Muta) dell’obbedienza al maschio e silenzio dell’ignoranza hanno caratterizzato la condizione materiale della donna in Grecia e a Roma, anche se non sono mancate le mogli e madri coraggio soprattutto nella storia romana. Il Medioevo ci ha presentato un panorama assai più ricco e composito fra eremite, mistiche, carismatiche come Maria Egiziaca e Chelidonia, recluse e ribelli in fuga quasi sempre perdenti. E poi la massa dei soggetti della solitudine fuori della communitas: donne, prostitute, bambini, vagabondi, folli. Fra il Cinque e l’Ottocento le donne sono state sicuramente più sole degli uomini. Ma si può essere stati nubili e celibi non solo per costrizione, anche per scelta».
Domanda non certo scontata: e oggi?
«Nel momento esatto di questa mia conversazione la solitudine si palesa come un sentimento che si presenta in un intreccio complesso con la malinconia, con la condizione del vissuto in un tempo sospeso fra tensione e risoluzione, fra aspettative e loro realizzazione mai compiuta, con la paura. E’ un sistema indefinibile di sentimenti, accentuato dalle guerre, dalle pandemie, dalle crisi climatiche, dalla violenza urbana. Si è soli anche se attraverso i mezzi di comunicazione di massa e i social networks ci illudiamo di essere sempre in contatto con gli altri. E invece si tratta solo di un gioco di specchi che riproduce all’infinito il nostro isolamento».
Qualche dato!
«Appena nel 2018, secondo dati ISTAT, ben 8 milioni e mezzo di italiani vivevano da soli: il 40% erano vedovi, il 39% celibi o nubili, il 31.6% di famiglie composte da un solo componente. Tre milioni dichiaravano di non avere una rete di amici, di non avere confidenti né persone alle quali rivolgersi in caso di bisogno, economico o di altro tipo. In pratica un italiano su otto viveva solo e, ovviamente, si sentiva solo…».
Questo vuol dire che nell’età della massima invasività delle immagini e della sua mediatizzazione, la tendenza ad isolarci e a vivere da soli è molto forte?
«Purtroppo sì. Prendiamo il c.d. “selfie” (l’autoscatto che ognuno di noi può agevolmente praticarsi con l’utilizzo di un semplice smartphone): ebbene, questa pratica è la rappresentazione plastica, allo stato puto, del narcisista solitario. Questi si fotografa o si lascia fotografare vicino a una scultura fino a costo di provocare danni all’opera, che gli interessa meno come prodotto artistico e assai più come attestato della sua compresenza con un essere inanimato: è l’oggetto-altro considerato come prolungamento del suo “io” presente».
Ce ne rendiamo conto nella via quotidiana: assistiamo ad eccessi spesso inspiegabili…
«E’ allarmante, lo so, ma nella società di massa contemporanea prevalgono le deformazioni patologiche della solitudine. Anche in situazioni ricorrenti, non definibili immediatamente patologiche, il pendolo oscilla fra l’ossessiva ricerca dell’ottimizzazione delle performance individuali, della totale esteriorizzazione, la messa a nudo dei comportamenti che prescindono dagli stati emotivi e nascondono la propria interiorità, da un lato, e la strenua difesa della privatezza, dall’altro, che non è il diritto alla privacy, bensì, come scrive Mattia Ferraresi, “l’affermazione del proprio dominio incontrastato nello spazio del sé. Ma questa venerata e protetta autonomia ha un prezzo: la separazione dall’altro”».