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Spataro: "Sulla Jihad in Italia attenti alle bufale"

Armando Spataro, 65 anni e dallo scorso luglio procuratore della Repubblica a Torino, ha un’esperienza unica nella lotta al terrorismo internazionale. Dal 2003, come procuratore aggiunto a Milano, per dieci anni ha coordinato il Dipartimento terrorismo ed eversione, conducendo alcune tra le principali indagini italiane in materia. Spataro nel 2010 ha scritto anche un'autobiografia professionale, Ne valeva la pena: storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa (Laterza). A lui Panorama ha chiesto di fare il punto sui rischi di un attentato in Italia, sulla falsariga di quelli che si sono verificati il 22 ottobre a Ottawa e due giorni dopo a New York.

Dottor Spataro, lei crede che qualche «convertito» italiano alla Jihad possa essere spinto a compiere attentati anche in Italia?
Più che "spinto" da altri, io penso che qualche folle possa compiere atti del genere autonomamente. È già avvenuto con il fallito kamikaze libico Mohamed Game, che nell’ottobre 2009 tentò di farsi esplodere all’ingresso dalla caserma Santa Barbara di Milano. Ma ritengo, pur se nessuno puó essere infallibile profeta, che non si debbano enfatizzare rischi e paure. Fortunatamente, abbiamo la migliore polizia giudiziaria del mondo e questo deve tranquilizzare i cittadini italiani.


Quel tipo di azioni potrebbe essere affidato a immigrati arrivati in Italia?
Tra le bufale clamorose, che ogni tanto circolano in Italia, c’è anche quella dei terroristi che arrivano da noi sui barconi degli immigrati irregolari: se l’immagina lei un potenziale kamikaze che s’imbarca in Libia a rischio di affogare nel Mediterraneo? Si alimenta lo stesso timore che nel 2008 accompagnò il proliferare dei «pacchetti sicurezza». Comunque, meglio essere silenti e lavorare con pazienza; anche perché, se un’organizzazione terroristica può essere bene indagata, il gesto del criminale isolato non è quasi mai prevedibile. 

Il ministro Angelino Alfano, lo scorso agosto, ha dichiarato che i convertiti italiani reclutati al terrorismo islamico sono 48. Quanto può davvero essere pericoloso il fenomeno?
Intanto la prego: non chiamiamolo "terrorismo islamico". La religione islamica non prevede affatto l’uso delle violenza e del terrore per l’affermazione dei principi su cui si fonda e solo chi pratica la follia criminale del terrorismo lo sostiene. Meglio usare la definizione tecnica di "terrorismo internazionale", o chiamarlo "cosiddetto terrorismo islamico" per porre in evidenza l’arroganza e la menzogna di quei criminali che seminano morte. Detto questo, ignoro francamente quali siano le fonti che consentono di quantificare i cittadini italiani convertiti a quel tipo di terrorismo.

È un dato del ministero dell’Interno: lei ha la percezione che il dato possa essere differente?
È un dato che a noi investigatori non risulta, come ho potuto verificare peronalmente contattando anche varie Procure che trattano la materia. Del resto, se queste notizie venissero dalle Agenzie di informazione (cioè dai servizi segreti, ndr), dovrebbero essere già state trasferite alla polizia giudiziaria e da questa a noi, come la legge impone. Ma anche se ci si riferisse a immigrati di fede islamica il dato non ci risulta. Non vorrei comprendesse i terroristi espatriati negli anni scorsi: in tal caso saremmo di fronte a un errore. L’Isis è nato nel 2012 e quegli espatriati potrebbero essere oggi nemici dell’Isis. Ma, a prescindere dalle cifre, è evidente che il terrorismo di cui parliamo è pericoloso e lo è in ogni parte del mondo. È giusto, dunque, tenere alta l’attenzione al fenomeno.


A Torino avete in corso indagini su «convertiti» italiani reclutati al terrorismo internazionale, come a Genova?
Comprenderà che, se avessimo indagini in corso, non potrei dirglielo. Ripeto, comunque, che abbiamo un’ottima polizia giudiziaria.


A suo parere, il reclutamento che spinge giovani italiani alla Jihad in Oriente è un fenomeno in crescita? 
Per quello che ne posso sapere lo escluderei, specie ove si parlasse di «italiani» in senso proprio.


Che siano italiani o meno, dove avviene oggi più frequentemente il reclutamento alla Jihad, la «guerra santa»? Nei luoghi di culto? Attraverso internet? Altrove?
Oggi il reclutamento tradizionale è raro, se non inesistente. È vero che nelle inchieste degli anni passati erano stati individuati in Italia alcuni locali riservati, in luoghi di culto o in scuole di cultura islamica, dove i leader dei gruppi terroristici tentavano di reclutare nuovi adepti per la loro causa, ma quel tempo è passato.


E che cosa accade oggi?
Oggi il reclutamento avviene via web, usando non solo siti estremisti in senso proprio ma anche i social network. E non si tratta più di diffusione di videomessaggi, ma di un sapiente uso delle tecniche di comunicazione moderna che, a partiredall’arancione degli indumenti delle vittime decapitate, che serve a rievocare i prigionieri di Guantanamo e di Abu Ghraib, alimenta gesti emulativi di singoli soggetti.


Quali sono le principali difficoltà di questo tipo d'indagine?
Certamente quelle che derivano dal dover rincorrere la modernità che i gruppi terroristici, per quanto fondati su logiche prearcaiche (basti pensare allo stato delle donne), sanno ben sfruttare. Fortunatamente, però, abbiamo investigatori esperti anche nell’uso di strumenti di analisi tecnologicamente avanzati. Ma soprattutto paghiamo la diversità dei sistemi di repressione e d’indagine esistenti nelle democrazie occidentali. Il rispetto assoluto dei diritti è imprescindibile e facilita la collaborazione piena tra polizie e magistrature di tutto il mondo. Ma non tutti la pensano così. Qualcuno crede di essere il padrone delle notizie, di non doverle diffondere e anzi di doverle mantenere segrete all’infinito. Altri ancora pensano che sia utile la prassi delle intercettazioni e della raccolta di dati a strascico, una sciocchezza assoluta, o che la lotta al terrorismo non si faccia nelle aule di giustizia, così facendo confusione tra strumenti legali di prevenzione e quelli di repressione giudiziaria. Per non parlare della teorizzazione della tortura come strumento d’interrogatorio: una vergogna che spero appartenga ormai al passato.

Esiste un qualche collaborazione con gli inquirenti di altre Procure in questo tipo di indagini? 
A livello internazionale, esiste Eurojust, un’istituzione che facilita e rende più rapida la cooperazione ma che sconta le differenze tra sistemi di cui ho detto prima. A livello nazionale, vorrei ricordare che furono i magistrati, del tutto spontaneamente, a inventare durante gli «anni di piombo» il coordinamento e lo scambio di notizie. E quell’ impostazione di lavoro fu poi importata nelle attività di contrasto di mafia e corruzione. È successo anche contro il terrorismo internazionale: le Procure si sono coordinate da sé, efficacemente.

Collaborazioni spontanee tra Procure, lei dice: bastano?
No. Paghiamo l’inesistenza di una Direzione nazionale antiterrorismo, che all’interno o affianco della Direzione nazionale antimafia, renderebbe ancora più efficaci collaborazione e coordinamento investigativo. Il Procuratore nazionale Franco Roberti, il prefetto Carlo De Stefano e io stesso lo abbiamo detto il 23 ottobre alla commissione Giustizia della Camera. Tutti i parlamentari presenti sembravano d’accordo. Vedremo…

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