News
February 26 2018
«Cercava la rivoluzione, trovò l’agiatezza» scriveva Leo Longanesi. E così, pure l’epopea grillina sembra giunta al capolinea. Lo scandalo dei bonifici inviati di giorno e annullati la notte è però solo l’epifenomeno. Il vero obbrobrio è la Spesopoli.
Più di cinquanta milioni di rimborsi ottenuti dai 123 parlamentari senza scontrino né giustificativi. Così fan tutti, certo. Compresi i fustigatori della politica e dell’italica morale. Dei loro corposi rendiconti, meritoriamente pubblicati online, Panorama ha già rivelato rimborsi improbabili. Persino ad agosto, quando Camera e Senato sono chiusi per ferie.
Poche e sconosciute pecore nere, si è sentito dire. Ma i notabili del Movimento sono al di là di ogni sospetto? Sono davvero come la moglie di Cesare?
Spulciando le note spese, Panorama ha scoperto che pure loro hanno spesso usato fino all’ultimo centesimo disponibile, arrivando in qualche caso a 12 mila euro al mese. Affitto, consulenze, collaboratori, ristoranti, iniziative. Il dettaglio degli rimborsi è sterminato. Ma c’è un’aggravante. La china dei maggiorenti del M5s è sensibilmente peggiorata negli ultimi tempi.
All’inizio del loro mandato, in ossequio alla morigeratezza invocata da Beppe Grillo, hanno restituito una buona fetta dei rimborsi. La tensione morale promessa agli elettori s’è arenata poco a poco. Fino ad arrivare all’ultimo anno. Quando i versamenti al fondo per il microcredito sono crollati. O addirittura si sono azzerati, come nel caso di alcuni numi tutelari.
Un caso illuminante è quello di Mario Giarrusso, senatore fumantino e ultralegalitario. Da inizio legislatura, ha usato 482 mila euro di rimborsi e ne ha ridati poco più di 14 mila: nemmeno il 3 per cento. Somma adesso evaporata. Nel 2014 toccò i 3.667 euro. Quest’anno, a fronte di 109 mila euro di spese, neanche un centesimo è stato bonificato alle piccole e medie imprese. Insomma: il parlamentare siciliano s’è limitato, come tanti illustri colleghi, a versare sul conto pentastellato il minimo indispensabile: circa 1.700 euro dei 10.435 euro lordi di stipendio.
Il barbuto senatore è in ottima compagnia. Anche Danilo Toninelli, influente avvocato del M5s, quest’anno ha raschiato il barile: zero rimborsi, a fronte di quasi 90 mila euro rendicontati. Ma nel 2014, onorevole fresco d’elezione, contribuì con ben 24.340 euro alla buona causa. Simile la parabola di Carla Ruocco, che siede nel nevralgico Comitato operativo dei 5 Stelle e qualche settimana fa è stata la deputata più votata alle Parlamentarie. Nel 2014 contribuiva con 19 mila euro. Nel 2017, nonostante abbia ricevuto 104 mila euro di rimborsi, non ha dato nulla.
Meno nota la senatrice catanese Nunzia Catalfo. È una dei tre probiviri del Movimento ed è stata chiamata da Davide Casaleggio nell’Associazione Rousseau. Quest’anno Catalfo, dei 88 mila euro ricevuti, ha reso appena 253 euro. E anche nel suo caso il paragone con gli anni in cui, come cantava Francesco Guccini, «gli eroi sono tutti giovani e belli», è eloquente: nel 2014 stornò quasi seimila euro. Pochi, ma pur sempre qualcosa.
Un altro chiamato alla tolda della strategica piattaforma Rousseau è Manlio Di Stefano: papabile ministro degli Esteri in un ipotetico governo 5 Stelle. Il deputato siciliano quattro anni fa versò 13.430 euro, mentre quest’anno s’è fermato a 1.865.
Sulla stessa direttrice, l’ultrapasionaria Paola Taverna, senatrice più votata delle Parlamentarie. È passata dai circa 32 mila nel 2014 ai 4.744 euro nel 2017, quando ha usato 109 mila euro. L’85 per cento in meno di quanto ridato agli albori. Una percentuale simile a quella della candidata governatrice in Lazio, l’ex capogruppo alla Camera Roberta Lombardi, scesa da 17.320 a 1.399 euro. Anche il senatore Vito Crimi, testimonia il crollo vocazionale: da 15.644 a poco più di 2.700 euro.
Insomma, pare siano finiti i tempi in cui bisognava aprire il parlamento «come una scatoletta di tonno». Eppure niente è cambiato, in questi anni, nelle esigenze degli eletti. Se non la loro attitudine. Lo dimostrano le note spese dei tre indiscussi leader. Il candidato premier, Luigi Di Maio, nel 2014 restituiva quasi 19 mila euro di rimborsi. Nel 2017 s’è fermato alla metà: 10.053 euro.
Ancora più drastico il calo dei versamenti di Roberto Fico. Le donazioni del capo degli antagonisti sono calate, in quattro anni, da 28.424 a 6.142 euro. E poi c’è Alessandro Di Battista: nell’anno di grazia 2014, bontà sua, conferì la somma record di 33.319 euro. Nel 2017, però, il contributo al fondo per il microcredito non ha raggiunto i 3.500 euro: il 90 per cento in meno. Il dato si riferisce solamente ai primi nove mesi: l’integerrimo pentastellato è difatti molto in ritardo con l’elargizione mensile. L’ultimo bonifico, lo scorso 21 novembre, è il conguaglio di settembre 2017.
La Spesopoli, pur sottotraccia, sta diventando il vero vulnus. Il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, ex esponente del M5s, l’ha detto chiaramente: «Più che vedere chi non ha rendicontato, sarebbe più interessante vedere chi ha rendicontato cosa e come. Ci sono delle spese oggettivamente impresentabili, anche dal punto di vista dei big».
Persino il campione dei furbetti della Rimborsopoli, il deputato Ivan Della Valle, lancia messaggi sibillini. Nel suo caso, non sono arrivati al fondo per il microcredito 51 bonifici: per un totale di 272.312 euro. Lui sposta l’attenzione: «È impossibile spendere otto o novemila euro al mese quando hai ufficio, viaggi e telefono già pagati. La trasparenza vera si farebbe tirando fuori tutti gli scontrini. Aspetto che Di Maio li chieda». L’onorevole reietto parla pro domo sua, ovviamente: per alleviare l’imbarazzo. Ma non ha torto. Che senso ha dettagliare al centesimo, senza allegare nemmeno una ricevuta?
Assieme al declino delle restituzioni, i maggiorenti pentastellati hanno chiaramente aumentato le spese. Nel 2017, ad esempio, Di Maio ha annotato 53.257 in «eventi sul territorio». Fico ne ha investiti 5.671 alla voce «utenze»: cioè quasi 500 euro a mese di bollette o affini. E Di Battista 9.460 euro in «vitto»: visto il ritardo nella rendicontazione, più di mille euro al mese. Taverna, invece, nell’ultimo anno ha adoperato buona parte della sua diaria in «trasporti»: 12.367 euro.
Eppure dovrebbero essere fondi destinati «a titolo di rimborso delle spese di soggiorno a Roma», spiegano i regolamenti parlamentari. E Taverna è una capitolina purosangue. Altri 4.103 li ha utilizzati, ancora nel 2017, come canone o abbonamento telefonico.
Anche il collega Giarrusso non ha lesinato, destinando 13.619 euro a due voci speculari: rimborsi chilometrici e carburante. Robusto pure l’investimento in vitto: quasi mille euro al mese, la metà destinati all’acquisto di generi alimentari. Mentre Lombardi, sempre nel 2017, ha usato più di 65 mila euro per «collaboratori». Il record dei costi mensili va però a Catalfo: nel giugno 2017 la somma dei suoi giustificativi ha toccato quota 12.010 euro, compresi 576 euro di taxi e 1.277 euro alla voce «altre spese».
Niente di nuovo, ci mancherebbe. Nessun partito ha però fatto voto di francescanesimo per accalappiare il voto anticasta. Beppe Grillo, nel 2011, aveva tracciato la linea di demarcazione con i partiti tradizionali: gli eletti non percepiranno più di tremila euro, e dovranno rinunciare a tutti i benefit dei parlamentari. Editto che, anche simbolicamente, all’inizio del mandato i pentastellati hanno provato a onorare. Ma il rigore s’è affievolito nel tempo. Fino alla definitiva normalizzazione. Perfetti arcitaliani pure loro: nati incendiari e finiti pompieri.
*Questo articolo è stato pubblicato sul numero 10/2018 di Panorama con il titolo "Tra i furbetti dei rimborsi anche i big dei 5 Stelle"