Politica
October 07 2020
Nel mondo normale non dovrebbe essere il commissario tecnico della nazionale di calcio a ricordare al ministro che lo sport, in un Paese che si rispetti, è un diritto e non una concessione. Neanche in tempo di pandemia e regime sanitario e sociale speciale. In Italia è accaduto anche questo: il ct Roberto Mancini si è preso la briga di spiegare al ministro della Salute Speranza che "lo sport è un diritto, esattamente come la scuola" e che "non è una cosa che ci viene data così", ma è "praticato da milioni di italiani a tutti i livelli". Da Cristiano Ronaldo con i suoi 84.931,50 euro guadagnati al giorno (ferie e malattie comprese e sponsor esclusi) all'ultimo bimbo che di pomeriggio si avvicina a una palestra o a un campo spelacchiato. Per non parlare delle associazioni e delle società dilettantistiche che sono la spina dorsale dello sport tricolore.
Ora, anche solo per convenienza elettorale (essendo i praticanti continuativi o saltuari oltre 20 milioni), sarebbe saggio che la politica tenesse conto di questo. Invece nel dibattito autunnale e con la curva pandemica in veloce risalita, dal Governo e dintorni è tornato a suonare prepotente il solito refrain. C'è chi dice che si deve parlare "meno di calcio e più di scuola", come le due cose fossero alternative e non semplicemente piani paralleli che percorrono ciascuno la propria traiettoria, e c'è una scuola di pensiero che vorrebbe riscrivere, restringere e magari azzerare le regole date nei mesi scorsi per cercare di consentire allo sport stesso, seppure faticosamente e facendo mille compromessi, di ripartire.
La punta dell'iceberg è evidentemente il calcio, con il clamoroso autogol della questione Juventus-Napoli che ha scoperchiato il vaso di pandora costringendo i vertici federali a dover ricominciare quasi daccapo il lavoro su protocolli e normative. Ma quando si arriva a mettere in discussione lo sport in senso assoluto, si compie un passo ulteriore negandone la valenza sociale che è assimilabile a quella educativa e scolastica, soprattutto nelle aree del Paese dove minori sono le possibilità di accesso all'offerta ricreativa a formativa.
Chi ha a che fare con lo sport di base sa cosa ha dovuto passare in questi mesi, quasi sempre remando contro corrente. I rischi corsi di vedersi sottrarre le strutture pubbliche (spesso palestre scolastiche), promesse prima alla scuola stessa a disperata caccia di spazi e poi restituite a fatica a chi le occupa riempendole di giovani. La difficoltà ad applicare protocolli complessi. L'assunzione di responsabilità e corresponsabilità assumendosi tutti i rischi. I soldi dati col contagocce e quasi sempre in ritardo. Un mondo sommerso, condannato a rimanere tale nel momento più difficile della sua storia.
L'attacco al calcio professionistico non è che l'aspetto visibile di questa strategia del disinteresse. Il ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, ama ricordare i contributi dati ai collaboratori sportivi; ebbene, sono stati una goccia nel mare e in qualche caso hanno prodotto anche distorsioni poco comprensibili, perché quando dai soldi a pioggia non sempre centri l'obiettivo giusto. Dal responsabile che ha in mano le deleghe su quel mondo, fatto di Ronaldo e anche dei figli di milioni di italiani, bisognerebbe attendersi qualcosa di diverso e di più: un grande piano per mettere in sicurezza lo sport facendo tacere quelli che sembrano ricordarsene solo quando serve come passerella. Non dovrebbe essere il commissario tecnico a rispondere al Ministro della Salute, ma il suo collega di Governo e di maggioranza. Se ne avesse voglia e se trovasse il tempo...