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February 12 2013
Jerry Martin ha una camicia fluorescente con la scritta «Chief» (capo) sul petto, cuffie da sparo appoggiate sulle spalle, pantaloni mimetici, berretto con visiera e una naturale diffidenza verso chi si discosta dal suo stile. Se ne sta con le gambe divaricate sulla porta della New Jersey firearm academy e, quando con tono asciutto dice: «Come posso aiutarla?», nello sguardo velato da occhiali ambrati si legge: «Sparisci!». In un poligono di tiro l’uomo pericoloso è quello con il taccuino in mano, non quello con la pistola nella fondina.
Ci vuole tempo per trasformare uno scambio di monosillabi in una conversazione: dalla strage degli innocenti a Newtown, in Connecticut, la comunità dei cultori della polvere da sparo si sente accerchiata e ha attivato nuovi anticorpi per difendersi da chi vuole limitare il diritto a portare armi da fuoco, garantito dal secondo emendamento della costituzione americana. Ogni intruso è un potenziale fautore del disarmo, una spia che alimenta la campagna per convincere il pubblico che i massacri si evitano con un provvedimento semplice: eliminare le pistole. O almeno mettendo fuori legge le armi automatiche, come prevede il disegno di legge fortemente voluto da Barack Obama e che presto sarà discusso al Congresso.
Che le stragi siano la diretta conseguenza della cultura delle armi americana è un’opinione diffusa, persino un’ovvietà per chi osserva l’America dalla sponda opposta dell’Atlantico, però una giornata in uno dei nodi della grande rete armata che si estende per tutto il paese suggerisce che la questione è più complessa. Siamo a Union City, nel New Jersey, una striscia suburbana stretta fra i luminosi tentacoli di New York e gli spazi aperti del Garden state. Lo Schuetzen Park, una delle sedi dell’accademia delle armi, è stato costruito da immigrati tedeschi un secolo e mezzo fa, quando la zona era una pianura punteggiata di fattorie. Ora è un’oasi verde abbracciata da un groviglio di tangenziali. Il colpo d’occhio all’interno è quello di una polisportiva di provincia, con i colori sbiaditi e un palpabile senso della comunità, una bocciofila con le pistole al posto delle bocce: ci sono teche con vecchi trofei, riviste ingiallite, fotografie di gente sorridente che imbraccia il fucile. Ovunque fa capolino la faccia plastificata di Wayne LaPierre, vicepresidente della National rifle association, il volto pubblico della controffensiva della comunità armata in queste settimane di dibattiti e scontri legali. Fuori dal poligono vero e proprio c’è un gigantesco bar. Appollaiati sul bancone gli avventori accompagnano con birra light le «mozzarella stick» fumanti che escono dalla cucina. Gli altoparlanti mandano vecchie hit di Bruce Springsteen, altro prodotto locale.
L’ambiente suggerisce che al poligono non si va soltanto per sparare: è un ambito sociale, un polo di aggregazione, un posto dove passare la domenica con la famiglia per fuggire la solitudine. Nei fine settimana estivi il parco del poligono diventa il teatro di feste popolari, con griglie fumanti e gente che beve birra ghiacciata su seggiole da campeggio mentre discute dei nuovi proiettili calibro 22. Anche d’inverno l’andirivieni è incessante. E il pubblico non potrebbe essere più eterogeneo: padri di famiglia, ragazzi, cacciatori, poliziotti, giovani coppie, guardie armate, signore con i capelli grigi raccolti dentro un capellino della Nra.
In un paese nel quale perfino un presidente come Barack Obama, che vuole fortemente limitare la diffusione di armi, ammette di usarle e si fa fotografare mentre imbraccia il fucile, i tiratori non sono soltanto i cowboy dell’America wasp, sono piuttosto un campione dell’America multietnica. Bianchi, neri, ispanici, asiatici, italoamericani, irlandesi, tedeschi, russi... tutti si rivolgono con rispetto al Chief, lui consegna le pistole, sistema i bersagli, prende le scatole di proiettili dal magazzino, raccomanda a chi ha finito di sparare di lavarsi le mani con l’acqua fredda, perché l’acqua calda apre i pori e lascia penetrare le particelle di piombo.
L’istruttore spiega che l’autodifesa o la caccia muovono una minima parte degli appassionati di armi, i più lo fanno «per curiosità, per capire di più un pezzo della nostra cultura. Ogni americano ha almeno un parente o un amico stretto che spara». Le statistiche dicono che 88 americani su 100 hanno un’arma; in tutta l’America circolano 310 milioni di armi da fuoco fra la popolazione civile. Il variegato programma dell’accademia riflette la diversità della domanda. Ci sono corsi per cacciatori una falsità» con i bersagli mobili, gare per cecchini sulla lunga distanza. Ci si può esercitare con i fucili d’epoca o con armi semiautomatiche, si può riservare una parte del poligono per feste private e addii al celibato, ci sono corsi per tutti i gusti e le età. Un cartello all’ingresso ricorda: «Kids shoot free!», i bambini accompagnati dai genitori sparano gratis. Se si pensa ai 20 bambini di 5 e 6 anni trucidati dalla furia del ventenne Adam Lanza, manca per un attimo il respiro, ma l’istruttore, e con lui tanti tiratori che intervengono nella conversazione, rifiuta con forza l’associazione automatica fra la cultura delle armi da fuoco e le stragi.
«Sono le persone che sparano, non le pistole» dice Martin «e i responsabili di questi episodi sono persone disturbate che non dovrebbero mettere le mani sulle pistole. È una vita che lavoro nella comunità delle armi da fuoco e il nostro scopo è quello di insegnare a usarle in modo sicuro e responsabile. Non credere che prendiamo alla leggera questi episodi, ne parliamo e ci confrontiamo di continuo, ma bisogna affrontare il dibattito in modo razionale, senza farsi guidare dall’emozione. Serve un’educazione all’uso delle armi e servono regole che abbiamo già. Purtroppo la madre dell’assassino di Newtown è stata uccisa, se fosse viva bisognerebbe chiedere a lei per quale motivo ha permesso che il figlio disturbato potesse mettere le mani sulle sue armi».
Non sempre l’addestramento è sufficiente. E la follia può arrivare anche in un poligono ultraprotetto e controllato, come dimostra il caso di Chris Kyle, il cecchino dei Navy seals ucciso in Texas proprio in un poligono da Eddy Ray Routh, altro veterano delle forze armate. Martin dice che la soluzione non è proibire ma «togliere la mistica» dalle armi. «Io non ho figli, ma se ne avessi insegnerei loro a usare le pistole in modo sicuro». Gli avventori alle sue spalle annuiscono.
Annuisce con particolare decisione una coppia di origine ispanica. Non vogliono dire i loro nomi («Una generale sfiducia verso i media, niente di personale») ma ci tengono a sottolineare che la proposta di legge voluta da Obama colpevolizza implicitamente «i cittadini rispettosi della legge come noi. Uno che non rispetta la legge troverà sempre il modo di fare del male, non c’entrano le armi».
Nemmeno le armi d’assalto che sparano centinaia di colpi in pochi secondi? Su questo dettaglio non secondario il fronte compatto dei tiratori sembra sfaldarsi. John Stella, poliziotto in pensione di origini italiane, esprime con un pastoso accento newyorkese le sue perplessità: «Credo che le armi d’assalto dovrebbero averle soltanto la polizia e i militari. Nessun civile ha bisogno di fucili del genere. Detto questo, bisogna dire che stiamo assistendo a una campagna contro le armi in generale. Vogliono far passare l’equazione “armi uguale stragi”, una grossa falsità». La proposta dei vertici della Nra di mettere guardie armate in tutte le scuole per proteggere gli studenti sembra a tutti ragionevole: «Ci sono guardie con le pistole nelle gioiellerie e nelle banche, non vedo perché non dovremmo proteggere i nostri figli nello stesso modo», dice un corpulento signore sulla sessantina che ha appena finito la sua sessione di tiro.
Chi difende con più forza il diritto a portare le armi è un assistente istruttore nero che entra in sala con la pistola agganciata alla cintura. Si chiama Qamar Simmons e ha 17 anni. Non può essere promosso istruttore perché non ha ancora 21 anni, ma appena gira l’angolo il suo capo dice che «spara meglio di me da quando ne aveva 15». Ha impugnato un’arma per la prima volta durante un «science camp» estivo, quelli dove di solito si osservano i coleotteri e le latifoglie, e da allora non ha mai smesso di sparare. Frequenta l’ultimo anno in un liceo del New Jersey e condivide sogni e aspirazioni dei suoi coetanei. A un certo punto prenderà coraggio e inviterà al ballo della scuola la ragazza che finge di non notarlo nei corridoi. Però a differenza di tanti suoi compagni Qamar tre o quattro sere alla settimana lavora al poligono e si allena per diventare un tiratore: «Sogno che diventi la mia professione, vorrei andare alle olimpiadi un giorno» spiega. A casa ha una discussione aperta con la madre, la quale «non è proprio entusiasta della mia passione e abbiamo opinioni diverse sulla questione delle armi».
Il giovane Qamar conosce la lezione a memoria: «Il governo» dice «non può togliere ai cittadini onesti il diritto di portare le armi. Le tirannie iniziano sempre disarmando la popolazione e le stragi sono soltanto una scusa per togliere le armi dalle mani della gente perbene, che è l’argine contro gli eccessi del governo». Martin mette una mano sulla spalla del suo assistente, traboccante di orgoglio. I tiratori nell’atrio dicono «ben detto» al ragazzo. Con un mezzo sorriso stampato in faccia Qamar rientra nella dispensa per sistemare le casse di munizioni e chiudere così il sipario sull’ennesima, normalissima giornata di spari.