Economia
September 20 2018
Con Donald Trump, da un lato, che annuncia la decisione di imporre nuovi dazisu ulteriori prodotti importati dalla Cina per un valore complessivo di 200 miliardi di dollari e il presidente Xi Jinping, dall'altro, che si dichiara "costretto" a rispondere applicando nuove tariffe su merci statunitensi per un totale di sessanta miliardi di dollari, è legittimo chiedersi quale possa essere l'obiettivo finale di questa guerra commerciale che diventa ogni giorno più dura.
Il nuovo D-Day è lunedì prossimo, il 24 settembre, il giorno in cui questi nuovi dazi entreranno formalmente in vigore. Premesse per un salvataggio in extremis non ce ne sono, e quel che è peggio è che Washington ha già messo le mani avanti chiarendo che qualora la Cina dovesse adottare politiche di rappresaglia contro il settore agricolo o industriale americano (e la Cina lo ha fatto), il governo non potrà far altro che passare direttamente a quella che ha definito la "fase tre" di questa "inevitabile guerra", imponendo dazi su tutte le altre importazioni statunitensi che arrivano dalla Cina, per un valore di circa 267 miliardi di dollari.
Da un lato, come ricorda AgiChina, la Cina ha ragione a dichiarare, per bocca del il portavoce del Ministero degli Esteri, Geng Shuang, di non poter accettare "l'azione unilaterale sul commercio e il protezionismodegli Stati Uniti". Dall'altro non si capisce come sia stato possibile arrivare fino a questo punto senza trovare un compromesso. E l'unica risposta possibile è che forse, gli Stati Uniti, un accomodamento non lo abbiamo mai nemmeno cercato.
Prevedere che cosa succederà è molto difficile perché non esistono precedenti che possano guidarci nell'analisi. Bloomberg ha provato a elaborare qualche ipotesi, sottolineando come la Cina da tempo perso il primato di "fabbrica del mondo", ovvero come luogo ideale per ultimare produzioni di basso e medio livello a prezzi molto contenuti. Dall'America Latina al Sud-est asiatico, Pechino ha moltissimi concorrenti potenzialmente pronti a sostituirla nella catena di montaggio internazionale messa in piedi dalla globalizzazione. E la percezione condivisa di una Repubblica popolare come minaccia strategica un po' per tutti potrebbe accelerare un riallineamento anti-cinese. E forse questo l'obiettivo di Trump?
L'isolamento della Cina è stato sempre considerato un'ipotesi priva di fondamento perché l'idea di emarginare la seconda potenza economica mondiale in un mercato profondamente interconnesso è sempre stata vista come pura follia. Tuttavia, sottolinea ancora Bloomberg, se Washington riuscisse a far passare il messaggio secondo cui tutto quello che oggi produce la Cina potrebbe essere fabbricato altrove e, se così fosse, gli Stati Uniti ricomincerebbero a importare beni di cui hanno bisogno, forse creerebbe nuovi incentivi per questa transizione produttiva. E non è da escludere, qualora quest'ultimo si rivelasse uno degli obiettivi di Trump, che il presidente possa decidere di ridare vita alla (temporaneamente) defunta Trans Pacific Partnership, voluta da Barack Obama proprio per iniziare a isolare economicamente la Repubblica popolare cinese.
L'offensiva statunitense rischia di mettere la Cina in grosse difficoltà. A fronte di problemi economici interni noti e di una necessità irrinunciabile di continuare ad approfondire i suoi legami con il resto del mondo sia per consolidare la sua visione internazionale di "benessere e prosperità" incarnata dalla Nuova Via della Seta, sia continuare ad alimentare quello scambio di know how e tecnologie essenziale per trasformare la Cina in una potenza avanzata, Pechino l'isolamento cui gli Stati Uniti sembrano volerla relegare non se lo possono proprio permettere.
A dire il vero, isolare Pechino non conviene nemmeno a Washington, soprattutto in un'ottica di lungo periodo. Ma a Trump interessano di più i successi nel breve periodo, e gli va riconosciuto che la sua linea dura sta innescando dei cambiamenti. Secondo la Camera di Commercio Europea in Cina il 5,2 per cento delle aziende presenti sul territorio se ne sono andate, e tante altre potrebbero seguirle. Per evitare un esodo che rischia soltanto di anticipare la transizione auspicata da Washington Xi Jinping non potrà fare altro che trattare. E questa volta da una posizione di debolezza che lo costringerà a negoziare sui punti più cari a Trump: riforme, trasparenza, rispetto delle regole.