Stefano Fresi al cinema in un film lunare: «Un bel segnale di ripartenza»
Il grande passo, l'avventura lunare che unisce per la prima volta sul grande schermo Giuseppe Battiston e Stefano Fresi, doveva uscire al cinema il 26 marzo scorso. Poi sappiamo tutti cosa è piombato sulle nostre vite, cambiando ogni rotta: e il 20 agosto è la nuova ripartenza del film distribuito in sala da Tucker Film e diretto da Antonio Padovan, alla sua opera seconda dopo Finché c'è prosecco c'è speranza.
Commedia famigliare dai toni ora comici, ora silenziosi e soffici, Il grande passo vede ricongiungersi, anzi, congiungersi per la prima volta, due fratelli simili ma completamente diversi, nati dallo stesso padre (interpretato da Flavio Bucci), irresponsabile e assente, ma da madri diverse. Dario (Battiston) vive, solitario e strambo, nelle campagne venete, ossessionato dall'idea di raggiungere la Luna all'interno di un razzo di sua costruzione. Mario (Fresi) vive a Roma con la mamma, placidamente, gestendo una ferramenta. Sarà una missione lunare di Dario, miseramente fallita, a costringere Mario ad andare in soccorso del fratello, di cui è messa in dubbia la salute mentale.
Intervistiamo Stefano Fresi, attore di tonalità veraci e coinvolgenti, artista poliedrico compositore e musicista che ha imboccato la strada del cinema nei panni del Secco di Romanzo criminale (2005) per prendere il volo con la sgangherata banda di criminali della saga Smetto quando voglio.
Stefano, l'uscita prevista per Il grande passo era marzo, poi con il Coronavirus tutto si è fermato. Dopo alcune anteprime in arene estive, finalmente arriva al cinema. Un piccolo grande passo: un messaggio di speranza per il cinema italiano?
«Considerato che è un film sulla ripartenza, sul sogno, penso sia bellissimo portarlo nelle sale in un momento in cui le sale sono praticamente chiuse, stanno cominciando a risbocciare piano piano, con molta lentezza e molto timore. Penso sia un bel segnale cercare di difendere un film nel posto in cui è giusto che venga alla luce. I film sono pensati per essere visti sul grande schermo. Ringraziamo tantissimo le piattaforme digitali, che ci hanno permesso di passare il lockdown vedendo tanti film e serie televisive, ma l'impatto emotivo che ti dà guardare un film su uno schermo grande, su una sala al buio, è un rituale che regala una magia incredibile. Poi, in un momento come questo in cui abbiamo bisogno di aggregazione, in cui – giustamente - ci tengono separati per i rischi di contagio, l'idea di vedere un film - con tutte le dovute cautele, con le mascherine - insieme agli altri, è un bel segnale di ripartenza».
Il grande passo è una storia di sogni da inseguire e rapporti umani complicati, eppure fondamentali, anche per la realizzazione dei propri sogni. Il tuo personaggio all'inizio è rinunciatario ma poi prende anche lui la strada del sogno.
«È la cosa che mi piace di più di lui. Dario, invece, (il personaggio di Battiston, ndr) vive in questo mondo tutto suo fatto anche di ciò che crede essere la verità: è convinto di avere un padre ben diverso da come è, che ha ancora voglia di colpire e di stupire. Invece il mio personaggio è molto più disilluso perché conosce davvero che persona è, è stato e continua ad essere suo padre. Mentre Dario continua a sognare, Mario ha abbandonato il suo sogno. Mi piace però tantissimo che attraverso la conoscenza di un fratello, riscoperto, recuperi la voglia di realizzare un sogno, aiutando suo fratello a realizzare il suo. Credo sia un messaggio bellissimo di condivisione, di famiglia, nel senso più largo del termine, di comunità, direbbe Bauman».
Tu sei un sognatore?
«Senza dubbio, non potrei altrimenti fare questo mestiere. Ho deciso di fare un mestiere che è precariato. È un sogno grande, una passione fortissima. Sono un sognatore e cerco di insegnare il valore dei sogni a mio figlio. Gli sto insegnando a camminare con i piedi per terra ma con lo sguardo in alto, sempre».
Com'è stato il rapporto con Battiston?
«Era la prima che recitavamo insieme, anche se ci siamo conosciuti a un paio di edizioni dei David di Donatello. Finalmente siamo stati sul set insieme. Io sono un suo grandissimo fan da tempo, lo reputo uno dei più strepitosi attori che abbiamo in Italia, pieno di colori, veramente bravissimo. Mi è piaciuto tantissimo lavorare con lui perché è un essere umano meraviglioso e un attore eccezionale. Quando lavori con un attore che ti piace, poi, impari molto. Quando vai a vedere un film al cinema e osservi un personaggio messo insieme da un grande attore, vedi il risultato di un percorso, che ti fa dire "quell'attore mi piace tantissimo". Quando ci lavori insieme vedi il percorso e diventa un atto formativo: assistere a come un bravissimo attore si approccia a un personaggio, lo costruisce, lo lima, è sempre scuola. In questo mestiere si impara molto lavorando insieme agli altri. È artigianato. Se hai la possibilità di avere bravi artigiani attorno, che ti insegnano i trucchi del mestiere, migliori anche tu».
A proposito di ciò, hai avuto il piacere di recitare con Flavio Bucci, al suo ultimo film prima della morte. Com'è stato?
«È un privilegio che capita poche volte. Di solito si lavora con attori coetanei, che hanno fatto percorsi più o meno simili al tuo, uno più famoso, uno meno, però bene o male il forno è quello. Ma quando ti scontri e incontri con uno di quegli attori che ti hanno fatto venire la voglia di fare questo mestiere, il senso della responsabilità è incredibile. Magari hai scelto di fare questo mestiere perché ti ha incantato vedere Bucci nei panni di Ligabue. Forse inconsapevolmente, forse no. Noi siamo figli di quello che interiorizziamo, dei nostri ascolti, musicalmente, delle nostre letture, letterariamente, attorialmente delle nostre visioni al cinema. Quando poi lavori con uno che è stato tra i tuoi ispiratori, chiaro che è il compimento di un percorso. Lui era perfetto per il ruolo, per fare questo nostro padre un po' debosciato. La definizione più bella di lui l'ha data proprio Giuseppe (Battiston, ndr): era "temperamentoso". Bello averlo conosciuto, anche in questo suo lato forte».
Cosa ti è piaciuto di più di questo film e cosa di meno?
«Di più: il fatto che è una fiaba meravigliosa e abbiamo bisogno di fiabe per dormire sereni la sera, mai come in questo periodo. Mi è piaciuta la passione che c'era dietro a ogni singolo reparto: la fotografia di Duccio Cimatti dà tantissimo al film, anche la scelta dei costumi, le location. C'è un grande lavoro di squadra. La cosa che non mi è piaciuta non può che essere questa uscita un po' in sordina, scomoda, per quanto poetico che accompagni una riapertura. Forse avrebbe meritato un periodo dell'anno con la tranquillità delle persone di andare in sala, e anche un guadagno per la produzione che ha fatto lo sforzo di mettere in piedi questa avventura e potrà raccogliere…quello che potrà».
Una menzione particolare alla colonna sonora di Pino Donaggio.
«È molto bella e, soprattutto, ha un significato profondo. Oggi le colonne sonore, soprattutto quelle d'oltreoceano, spesso sono dei sound design, delle sonorizzazioni. Ne Il grande passo invece c'è la musica, che è il tema del film, come faceva Rota, Morricone, un tema che ritorna e viene trasformato. C'è un grandissimo lavoro musicale».
Tra i tuoi prossimi lavori il musical The Land of Dreams dove, ancora una volta come in Smetto quando voglio - Ad honorem, puoi mostrare le tue doti canore, e quindi Lasciarsi un giorno a Roma alla regia di Edoardo Leo.
«Sì, abbiamo già girato The Land of Dreams, ora circola in streaming Il regno di Francesco Fanuele, poi ho in progetto Guerra e pace al teatro Morlacchi di Perugia dal 28 ottobre al 22 novembre. E comincio proprio stasera (18 agosto, ndr) le riprese di Lasciarsi un giorno a Roma: oggi è un giorno di festa. Ieri sera sono andato a fare l'ultima prova costume, mi hanno fatto capelli e barba per il personaggio, quindi è ufficialmente nato Umberto. Poi le riprese finiranno intorno al 5 settembre».
Sul set vivrai i protocolli anti-Covid…
«Li ho già vissuti perché ho appena finito di girare I delitti del BarLume. È straniante. Provo una tenerezza infinita per la troupe. Noi attori, quanto meno nel momento del ciak, tra "Azione" e "Stop", siamo senza mascherine. Ma i ragazzi della troupe, - per carità, niente in paragone a quello che ha passato il nostro personale sanitario -, trascorrono otto ore sul set a luglio e in agosto, sotto il sole, con le mascherine. Non è semplice per niente, specialmente se fai un lavoro fisicamente impegnativo come spostare la macchina da presa, passare i cavi, costruire oggetti di scena. È faticoso. Ed è faticosissimo per le produzioni: non bisogna dimenticare che ora stanno facendo un'opera incredibile, stanno tenendo in piedi famiglie su famiglie. I costi sono altissimi per le produzioni: basti pensare che un tampone costa 90 euro, sul set siamo 70 persone, e facciamo tamponi ogni 4-5 giorni. 100 mila euro solo per garantire la salute a tutti. È una cifra abbastanza alta, soprattutto se la calcoli in previsione degli incassi che ci saranno. Le produzioni stanno davvero tenendo vive le famiglie che fanno questo mestiere. Bisogna ringraziarle, aiutarle quanto possibile e tenerle in grande considerazione».
Come hai vissuto il lockdown?
«Da privilegiato, perché ho una casa grande con giardino. Erano due anni che stavo in giro, quindi trascorrere tre mesi "costretto" a stare con mia moglie e mio figlio è stato uno dei regali più belli degli ultimi anni. Però, ovviamente, questa grande serenità è stata minata profondamente dall'ombra di questo mostro che c'era fuori. Non credo che mi toglierò mai dalla memoria l'immagine dei carri che vanno via da Bergamo: per me ha avuto lo stesso impatto degli attentati alle Torri gemelle. In casa ho tirato i remi in barca, ho sentito tanti dischi, sono stato molto con mio figlio ad aiutarlo con la scuola online, ho aiutato mia moglie (la sassofonista Cristiana Polegri, ndr) a incidere il suo prossimo disco. Mi sono messo a dieta e ho perso 27 chili. Non ero costretto ad andare in giro a mangiare per ristoranti, potevo mangiare bene, allenarmi un pochino».
Con il Coronavirus ancora nelle nostre vite, le paure sono nell'aria. Com'è il tuo sguardo verso il futuro?
«Le paure le abbiamo, perché c'è un mostro sconosciuto fuori e non ne sappiamo granché. C'è confusione di notizie e non abbiamo strumenti per capire cosa è vero e cosa no. Non si tratta del pizzicagnolo sotto casa ma di virologi più che laureati e ognuno dice cose in contrasto tra di loro. Non sai a chi credere. E questo mi preoccupa molto. Mi preoccupa molto la poca serietà delle persone, soprattutto dei ragazzi che non si rendono conto dei rischi cui vanno incontro e rischiano di far alzare i contagi. C'è questo clima indefinito che mi disturba molto. Io cerco di seguire le regole il più possibile, nel rispetto di me stesso e del prossimo. Non mi sento un lobotomizzato perché faccio fa quello che dicono. Trovo stupido l'atteggiamento di chi parla di complotti internazionali e nel frattempo se ne frega del vicino e si toglie la mascherina. C'è un clima di spavento e incertezza, che verte su tutto, non solo sul cinema, siamo tutti un po' così. Con le nuvole che coprono il sole».
Allora, forse, ci conviene andare anche noi sulla Luna...
«Sì» sorride Fresi. «Anche perché fino a prova contraria, a meno che Giuseppe (Battiston, ndr) non abbia contratto il virus, sulla Luna non c'è. Gli chiediamo di fare un controllo, da lassù, e lo raggiungiamo».
OUR NEWSLETTER