Sport
June 17 2015
E’ la notte del 18 gennaio 1984 quando squilla il telefono di una delle camere degli studenti dell’Università dell’Arizona. Il suono proviene della stanza di Steve Kerr, oggi il coach neo campione Nba con i Golden State Warriors; a quei tempi, una semplice matricola dei Wildcats. Dall’altra parte della cornetta un vecchio amico gli comunica la terribile notizia: Malcolm Kerr, suo padre, è stato ucciso a Beirut, dove da 18 mesi era presidente dell’American University.
La notizia fa il giro del mondo e diventa il simbolo della violenza del terrorismo in un paese lacerato dagli scontri religiosi tra Cristiani, Musulmani ed Ebrei. Per un ragazzo di 18 anni l’assassinio di un padre può avere solo altri significati. In quel momento – come racconta in un’intervista a Usa Today Bruce Fraser, oggi assistente dei Warriors e da sempre uno dei suoi migliori amici – cambiano la vita e forse l’intera carriera di Steve, che non prende l’aereo per il Libano e neanche 24 ore dopo segna 5 triple su 7 nella vittoria dei Wildcats; la sua miglior partita da matricola.
Dopo quella sera, spesa tra silenzi e sguardi persi, i suoi stessi compagni inizieranno a chiamarlo “Ice”. Quale soprannome più adatto per uno capace di non far tremare la sua mano persino quando le emozioni sono troppo forti, anche solo per essere raccontate. Cosa che, tra l’altro, Kerr non farà quasi mai a proposito della vicenda del padre; quello che farà, dice chi lo conosce, sarà invece acquisire uno straordinario senso della “famiglia”, qui intesa in un senso molto più ampio della mera appartenenza genetica come qualcosa per la quale bisogna essere disposti a combattere, a volte anche alzando la voce – cosa che Kerr, dicono i suoi giocatori, ama fare pochissimo –; soprattuto nel caso qualcuno volesse tentare di violarne la sua "legge".
Sarà per questo che una seconda scelta da Arizona, che aveva speso i suoi primi anni tra i pro cercando la sua dimensione tra Phoenix (che lo aveva preso al draft del 1988) Cleveland e Orlando, non ha avuto paura di tenere la testa alzata nemmeno di fronte a sua maestà Michael Jordan. L'episodio risale al training camp del 1995.Jordan temeva (dicono) che dopo due anni di lontananza i Bulls non lo percepissero più come leader. Per questo da qualche settimana il suo trash talking nei confronti dei compagni era diventato insostenibile. Inaccettabile per chi, come Kerr, si sentiva già responsabile – oltre le gerarchie, i ruoli, lo stipendio e forse anche il buonsenso – dello stato emotivo dei suoi compagni. Così Steve decide di alzare la voce contro il "padre e padrone" Jordan che gli risponde con un pugno in pieno volto. E’ in quel momento che l’attuale coach dei Warriors stupisce tutti rispondendo con la stessa moneta.
Sarà uno dei momenti chiave nella genesi dei Bulls tre volte campioni Nba. Jordan infatti, in preda ai sensi di colpa, si reca a casa Kerr la sera stessa per sistemare (questa volta a parole) la faccenda. Due anni più tardi, nella decisiva gara 6 delle Finals Nba 1997, Kerr infilerà la tripla decisiva su scarico proprio di MJ vincendo il suo primo titolo di campione Nba.
Negli anni successivi il tiratore di Chicago vincerà altri tre anelli consecutivi. Sì perché oltre a essere protagonista del famoso triangolo offensivo di Phil Jackson, grazie alla sua fortunata (ma non casuale) militanza nei Bulls di fine era Jordan, Kerr viene ceduto ai San Antonio Spurs a metà della stagione 1998-1999 diventando uno degli artefici del primo titolo della storia dei texani e di coach Gregg Popovich. Con gli Spurs arriva anche l'anello 2003, il quinto di una formidabile carriera da giocatore che Kerr chiusa subito dopo quelle Finals, a 38 anni, con il 45.4% da dietro l’arco dei tre punti. Ancora oggi la media più alta nella storia della lega.
Dopo il ritiro torna però a farsi spazio quell’idea di famiglia – questa volta sì intesa in senso naturale – che Steve aveva dovuto giocoforza trascurare data la lunga permanenza sui parquet Nba. Per questo nei suoi primi 5 anni da ex giocatore sceglie il ruolo di commentatore per TNT – grazie al quale peraltro guadagna ulteriore popolarità e credibilità tra pubblico e addetti ai lavori – dedicandosi il più possibile al ruolo di padre dei suoi tre bambini.
C’è una componente però del suo carattere che non può essere soddisfatta da microfoni e telecamere. Kerr è dannatamente competitivo. “Non ho mai visto nessuno arrabbiarsi come lui per il peso di un errore, di una sconfitta, o anche solo per un tiro sbagliato” dice l’amico Fraser. Eppure nella sua persona riescono a coesistere in perfetto equilibrio – probabilmente, aggiunge Fraser, grazie anche all'esperienza della tragica morte del padre – la fame di vittorie sportive e la voglia di mettere insieme giocatori capaci davvero di concepire l'appartenza alla squadra come una relazione familiare. Dal 2007 e il 2010 proverà l'impresa a Phoenix, nel ruolo di General Manager, con alterne fortune – e ricevendo non poche critiche per aver scambiato Marion e Banks con Shaquille O’Neal –.
Ma il vero capolavoro di Kerr era destinato a compiersi in questa stagione; iniziata con un “no” al ruolo di allenatore offertogli da Phil Jackson a New York – perché troppo lontana dalla California, dove studiano i suoi tre figli – e proseguita costruendo con ogni singolo membro degli Warriors un rapporto quasi paterno.
Gli stessi Warriors che l’anno precedente avevano già dimostrato di essere una gruppo dall’immenso talento individuale, ma che avevano ormai spremuto il massimo dalla sapienza dello straordinario coach-reverendo Mark Jackson – la crescita di Golden State degli ultimi anni passa anche da lui – prima di sfaldarsi proprio nel momento in cui avrebbero dovuto dimostrare di essere qualcosa di più. Un qualcosa di più simile a quello che Kerr aveva sempre ricercato in tutto ciò che faceva, ovunque si fosse trovato, dopo quella terribile notte del 1984. Una squadra che assomigliasse davvero a una famiglia. Oggi diventata anche campione del mondo.