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March 09 2018
Un libro, si sa, può essere peggio di una battaglia perduta. Ma questo libro in particolare, per la giustizia italiana, è peggio di un’intera guerra perduta.
Il libro è "Storia di mio padre", scritto da Stefano Cagliari e curato da Costanza Rizzacasa d’Orsogna (Longanesi, 256 pagine, 18,80 euro).
Stefano è il figlio di Gabriele Cagliari, il presidente socialista dell’Eni finito nelle maglie di Tangentopoli che il 20 luglio 1993, dopo oltre quattro mesi di custodia cautelare, si uccise soffocandosi con un sacchetto di plastica nel carcere di San Vittore.
Chi ha avuto in sorte d’incontrare personalmente Stefano Cagliari, un uomo che ha vissuto la morte di suo padre (aveva allora 36 anni) come un’esplosione nell’anima, sa bene che sfiorare anche solo per un attimo quella sofferenza può cambiare molti punti di vista, e la stessa idea di giustizia.
Chi legge il libro di Stefano, allo stesso modo, non potrà più sottrarsi alla questione, né nascondersi dietro all’indifferenza. Lettere, ricordi, memorie, fotografie: dalle pagine di questa storia, 25 anni dopo il suo terribile epilogo, il fantasma di Gabriele Cagliari incombe su tutti noi con una forza superiore a quella, pur drammatica e sconvolgente, del personaggio shakesperiano di Banquo.
Dalla sua cella di San Vittore, precipitato in quello che descrive come un “serraglio per animali senza testa né anima”, dove “ciascuno è abbandonato a se stesso, nell’ignoranza coltivata e imposta dei propri diritti, custodito nell’inattività e nell’ignavia”, il prigioniero Cagliari continua a proclamare non soltanto la sua condizione di perseguitato, ma insiste a gridare al mondo la sua sofferenza davanti a quella che percepisce come l’indifferenza degli inquirenti, di cui non capisce né la lentezza delle decisioni, né la determinazione a tenerlo in carcere.
In più, e per tutta l’eternità, nelle sue lettere scritte con lo stile di un uomo sensibile e colto Cagliari denuncia l’atrocità della condizione umana che ha scoperto, suo malgrado, dietro le sbarre.
Gherardo Colombo, probabilmente uno dei magistrati migliori tra gli inquirenti di quella stagione (si è dimesso nel 2007), ricorda nella sua introduzione che “le norme del tempo prevedevano largamente l’applicabilità della custodia cautelare”. Colombo sottolinea che la Costituzione definisce quel limbo come “carcerazione preventiva”.
E si sente, senza poterlo leggere esplicitamente nelle sue parole, l’imbarazzo del giurista e del garantista che da tempo proclama che “il carcere, così com’è, andrebbe abolito”. Nelle tante prigioni italiane, tranne poche meritorie eccezioni, non c’è diritto allo spazio vitale, all’igiene, all’istruzione, al lavoro, a nulla. Proprio come accadeva 25 anni fa.
Il problema è che in Italia il garantismo è pensiero disperatamente minoritario, e in certi luoghi lo Stato di diritto non ha ancora cittadinanza. “Troppa è la paura” scrive Colombo “di contrastare il sentimento diffuso secondo il quale il male deve essere ripagato con il male”. Non per nulla, Stefano Cagliari ricorda di avere ricevuto lettere anonime, subito dopo la morte di suo padre, dove una mano infame aveva scritto “Quanti miliardi ti ha lasciato?”.
Il libro contiene lettere dolci e disperate, analisi profonde e denunce sconvolgenti. Va letto, assolutamente. Andrebbe sicuramente fatto leggere a chiunque oggi in Italia voglia fare il magistrato. Le ultime pagine contengono il testo di due fra i 14 interrogatori subìti in carcere dall’indagato. Il primo è del 25 marzo 1993, è il quinto della lunga serie: contiene la confessione di Cagliari sui finanziamenti illeciti al Partito socialista e si conclude con un’ottimistica annotazione della difesa.
L’avvocato Vittorio D’Aiello, il penalista che nel 1993 assisteva Cagliari, chiede al pubblico ministero Antonio Di Pietro la revoca della carcerazione “dato il leale comportamento processuale dell’indagato e la mancanza di inquinamento probatorio”. Ma la misura cautelare non viene affatto revocata.
L’altro interrogatorio è il penultimo, quello del 15 luglio 1993 condotto dal pm Fabio De Pasquale. Ne seguirà un altro, il giorno dopo. Altri quattro giorni, e Cagliari si uccide. “Il loro obiettivo è chiaro” scrive Cagliari in una delle ultime lettere (e “loro” sono i magistrati) “devono farci diventare delle non-persone, inaffidabili e inattendibili, e abbandonarci anche oltre quelli che comunemente si dicono i margini della società”.
E aggiunge: “La convinzione che mi sono fatto è che i magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura psicologica, dove le pratiche possano venire a maturazione o ammuffire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente”.
E ancora: “Siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la sua propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima, o alcune ore prima”. “Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime di polizia, il regime della totale asocialità. Io non ci voglio essere”.