Dal Mondo
April 12 2022
«Račak fu il casus belli, uno strumento per pilotare l’opinione pubblica verso una escalation militare, per fornire la giustificazione morale alla guerra in Kosovo». Parole inequivocabili, quelle che pronuncia Tiziana Boari. Oggi giornalista radiotelevisiva, 23 anni fa membro della missione Osce in Kosovo. In quanto «media development advisor», nel gennaio 1999 Boari rivestiva un ruolo che le permise di vedere da vicino gli eventi che, il 24 marzo, portarono all'intervento Nato contro la Repubblica federale di Jugoslavia. «Mi occupavo dello sviluppo dei media» ricorda, «in particolare della tutela dei giornali di lingua albanese in Kosovo, dove l'assessore provinciale all'informazione era un rom, gruppo etnico tradizionalmente e storicamente vicino ai serbi». Questa coraggiosa giornalista, che ha lavorato a lungo per ong e organizzazioni internazionali nei Balcani e in Africa e che si è occupata a lungo del massacro di Račak, il 3 aprile ha scritto sulla sua pagina Facebook un post lapidario: «Bucha come Račak? E chiudo qui». Panorama le ha chiesto che cosa successe davvero a Račak. Una strage che fu la pistola fumante per legittimare i bombardamenti Nato, ma che non si rivelò abbastanza fondata per poter sostenere l'accusa nel processo contro una serie di alti ufficiali serbi, fra cui Slobodan Milosevic, al Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia. Inizialmente inserito nel capo d'imputazione, dopo una serie di interrogatori, l'11 luglio 2006 l'episodio avvenuto a Račak venne stralciato per «migliorare», a detta dei giudici, «la speditezza dei procedimenti».
Che cosa successe a Račak il 15 gennaio 1999?
«È passato tanto tempo, ma ricordo che il 16 mattina arrivò in ufficio a Pristina la notizia della strage. Nei giorni precedenti c'erano stati alcuni episodi che avevano messo in cattiva luce l'Uck : i guerriglieri avevano rapito ai primi del mese otto soldati serbi, rilasciati pochi giorni prima del massacro, e il giorno prima, il 15, l'Uck aveva sparato contro un'auto blindata di un osservatore inglese dell'Osce. A Natale c'era stata la crisi di Podujevo, quando l'Uck aveva bloccato la strada che portava a Belgrado, costringendo i soldati serbi di stanza nella caserma vicina a intervenire. Il 16 mattina, la persona che lavorava con me in qualità di assistente, una kosovara di etnia albanese che poi scoprimmo abbastanza vicina all'Uck, ci disse che c'era stato un incredibile massacro che dovevamo andare a vedere. A Račak, presso Stimlje, nel Kosovo meridionale, erano stati uccisi degli anziani, poi ferocemente mutilati».
E la sua assistente da chi l'aveva saputo?
«Da locali, che l'avevano avvertita. Chi fossero questi locali non lo so».
Quindi la notizia all'Osce arrivò attraverso lei?
«Sì, poi se ci furono altri canali informativi non lo so. Ricordo che mi diede la notizia appena arrivati in ufficio, verso le 8,30. Subito il capo missione americano William Walker con il suo vice britannico, il generale John Drewienkiewicz, meglio noto come DZ, si precipitarono a Račak».
Walker non ne sapeva niente?
«Che io sappia no. Era appena tornato da Washington, dove aveva passato il Natale. Era arrivato il giorno prima del rilascio dei soldati serbi. Il primo problema fu che quel giorno a Račak, essendo una scena del crimine, non furono prese le misure necessarie per conservare le prove».
Come non è stato fatto oggi a Bucha.
«A Bucha non sono stata. Io so che a Račak la scena del crimine fu violata: fu subito tutto calpestato, toccato, spostato, compromettendo le tracce... Oltre al suo vice, a vari assistenti, ad alcuni membri della sicurezza, a diversi osservatori, Walker quel mattino si portò dietro anche uno stuolo di giornalisti».
Quando arrivarono a Račak?
«Più o meno in tarda mattinata. Ma anziché transennare il luogo in cui era stato commesso il massacro, per preservare le prove al fine di ricostruire gli eventi, fu "inquinato" tutto. Purtroppo il vice-capomissione, l'italiano Giovanni Kessler, che doveva occuparsi di giustizia e polizia, non si era ancora insediato, dunque non era presente».
E cosa fece poi Walker?
«Appena rientrato in sede, ci ordinò immediatamente di organizzare, in grande fretta, una conferenza stampa per il pomeriggio. Durante la conferenza stampa parlò del ritrovamento di quei cadaveri di civili e pronunciò l'espressione “crimine contro l'umanità”. Peccato che questa definizione non possa essere attribuita senza aver prima svolto un'indagine. Lo stesso vale per il termine “genocidio” usato oggi per Bucha. Non sono termini da usare a cuor leggero».
Il controverso ambasciatore americano Walker, sostenitore della Grande Albania cui i kosovari nel 2016 dedicarono una statua, saltò subito alle conclusioni.
«Saltò subito alle conclusioni senza in realtà sapere niente. Nel momento in cui parlò di "crimine contro l'umanità" era solo stato fatto il ritrovamento dei corpi».
A che ora si tenne la conferenza stampa?
«A metà pomeriggio, verso le 16. Walker vi arrivò in ritardo perché si era attardato al telefono con il Dipartimento di Stato. Oltre a denunciare l'accaduto un “crimine contro l'umanità”, ne attribuì le responsabilità alle autorità serbe».
Quindi nel giro di poche ore Walker aveva già emesso la sentenza...
«Sì, sì, contravvenendo alle raccomandazioni del suo advisor legale».
E come venne presa la notizia nel mondo?
«Fu la pistola fumante che l'Occidente stava cercando contro la Serbia di Milosevic. Il caso scosse le coscienze: si trattava di 45 morti. I giornali urlarono al massacro. I serbi negarono, dicendo che in quella zona c'era stato un conflitto a fuoco con i guerriglieri dell'Uck. In effetti è bene ricordare che in Kosovo al tempo era in corso una guerra civile, con l'Uck che operava con le modalità di guerriglia, tant'è che chiedeva a ogni famiglia di lingua albanese un maschio da arruolare fra le proprie fila, come mi dissero alcuni locali albanesi. E la popolazione civile era presa fra l'incudine e il martello, fra le forze governative e i guerriglieri dell'Uck».
Essendoci una guerra civile in corso, con scontri fra governativi e ribelli, i serbi dissero che i cadaveri erano guerriglieri caduti durante quegli scontri. Era davvero così?
«Era una guerra a bassa intensità, con atti di guerriglia e ritorsioni. In effetti poi si seppe che il giorno prima, il 15 gennaio, c’erano stati scontri fra polizia di sicurezza serba e Uck nella regione di Stimlje e a Decani, dove un verificatore Osce britannico e il suo interprete erano stati feriti dal colpo di un cecchino dell'Uck. Il colpo era penetrato nel loro automezzo blindato che faceva parte di un convoglio».
L'Uck aveva sparato contro un blindato Osce?
«Sì, sì. La condanna da parte dell'Osce fu durissima e uscì il giorno dopo, il 16, con un comunicato che purtroppo fu messo in ombra dalla scoperta del massacro di Racak. Dunque quando Račak venne denunciato c'era la situazione sul terreno si stava mettendo male per l'Uck, che stava passando dalla parte del torto».
Interessante...
«A gennaio, l'Uck aveva lanciato diverse offensive che avevano gettato in crisi la difendibilità da parte degli anglo-americani della linea filo-albanese. Ciò avveniva mentre il capo missione Walker era a Washington, fra fine dicembre e prima metà di gennaio. A inizio gennaio l'Uck aveva anche sequestrato otto soldati dell'esercito serbo: in cambio della loro liberazione aveva chiesto il rilascio dei suoi combattenti catturati qualche settimana prima al confine con l'Albania. Un atto eclatante, che aveva aperto un caso politico. Tutti i vice-capo missione avevano votato all'unanimità per la diffusione di una dichiarazione di condanna in contrasto con la volontà di Walker, che in quel momento non si trovava in Kosovo».
Era guarda caso a Washington.
«Rientrò a Pristina il giorno precedente il rilascio dei soldati serbi, se ricordo bene intorno al 12 gennaio. Comunque durante la crisi degli ostaggi si era arrivati a una contrapposizione netta, mai così chiara, fra linea europea e linea americana. L'agenzia Reuters aveva riportato, nello stesso giorno, due dichiarazioni della stessa missione sullo stesso caso: una da Pristina a firma Gabriel Keller, il vice-capo missione francese, che attribuiva agli albanesi la responsabilità dell'accaduto e dell'aumento degli scontri, e l'altra da Washington, a firma William Walker, che indicava i serbi come causa della nuova tensione e della violazione della tregua. Nella missione c’era una spaccatura fortissima che andava via via delineandosi tra chi tentava di abbassare i toni per lavorare verso una pace e chi invece cercava la pistola fumante per condannare Belgrado».
Quindi americani ed europei erano spaccati...
«Sì. Quello di Walker fu un errore diplomatico grave, dovuto secondo alcuni a un eccesso di emotività, secondo altri a una chiara volontà di provocazione per spingere all'intervento. Due giorni dopo, Belgrado lo dichiarò “persona non grata” e gli diede 48 ore per lasciare il Paese. Solo grazie all'intervento della presidenza norvegese dell'Osce si giunse a un congelamento dell'espulsione».
Torniamo a Račak. Cosa successe il 16 gennaio?
«Non ne fui testimone diretta, ma quello che si seppe dai rapporti della Kosovo Verification Mission (Kvm) e della nostra missione a Pristina è che, dopo il ritrovamento, i cadaveri furono portati nella moschea dalla popolazione locale (e dall'Uck che li controllava a vista). Come prescrive l'Islam, avrebbero dovuto essere seppelliti entro 48 ore dalla morte. Il 17 gennaio, il magistrato inquirente del tribunale distrettuale di Pristina, Danica Marinkovic, si recò a Stimlje per iniziare le indagini sul caso, come previsto dalle leggi jugoslave. Il capo operazioni della Kvm, generale John Drewienkiewicz, le offrì una scorta disarmata per entrare nel villaggio, sotto controllo dell'Uck. I guerriglieri avevano concesso l'entrata di un gruppo disarmato, ma la Marinkovic non si fidò e chiese di entrare con poliziotti armati. La mediazione fallì. Le truppe serbe occuparono il villaggio per recuperare i cadaveri e trasferirli all'obitorio di Pristina, dove un gruppo di quattro medici forensi jugoslavi e due osservatori bielorussi poté avviare le autopsie. Io ne venni in possesso solo nel 2000. Le studiai una ad una per un articolo che preparai per il Manifesto. In Italia fui la prima a sollevare dubbi su quanto era accaduto a Račak».
Che cosa rivelarono le autopsie?
«Le prime 15 dimostrarono che non c'era prova del massacro e che le ferite non erano state causate da proiettili sparati a distanza ravvicinata. A eccezione di due casi, in cui si rilevava una presenza sospetta di polvere da sparo intorno al foro di entrata ma si escludeva lo sparo a bruciapelo. Quindi non si trattava di esecuzioni. Quanto alle mutilazioni erano attribuite all'intervento degli animali».
Ma il mondo accusava di faziosità il team di patologi jugoslavi e bielorussi...
«Per questo, a partire dal 22 gennaio, entrò in gioco Helena Ranta e il suo gruppo di medici finlandesi, cui l'Ue aveva affidato la responsabilità di fare luce su una serie di fosse comuni risalenti all’anno prima. Visto che era già in Kosovo, le fu chiesta un’indagine indipendente sui 45 cadaveri di Račak. I finlandesi non controfirmarono le prime 15 autopsie eseguite dai colleghi jugoslavi e bielorussi e decisero di rifarle. Le autopsie furono realizzate tra il 22 e il 29 gennaio 1999 a Pristina, ma mesi dopo furono completati alcuni accertamenti a Helsinki. In conclusione, 39 casi su 40 esclusero nettamente l'ipotesi dell'esecuzione sommaria».
La stessa conclusione dei medici jugoslavi...
«Esaminando le due serie di protocolli di autopsia, risulta che si equivalgono nelle conclusioni. Le prove, insomma, dimostrano che non a Račak non ci fu un'esecuzione e che non è neanche sicuro che si trattasse di civili inermi. Il professor Dusan Dunjic, patologo dell'Istituto di medicina forense di Pristina, afferma - nel suo articolo «The (Ab)use of Forensic Medicine» - che, prima di eseguire le autopsie, il suo team aveva effettuato la prova del guanto di paraffina, rilevando in 37 casi su 40 tracce di polvere da sparo sulle mani dei cadaveri. Ma di ciò nei documenti ufficiali non è rimasta traccia».
E i finlandesi fecero la prova del guanto di paraffina, che avrebbe indicato se tra i caduti c'erano dei guerriglieri?
«No. Peraltro in Finlandia gli accertamenti non furono conclusi, quando su Helena Ranta furono esercitate pressioni affinché rendesse pubblici i risultati delle autopsie, cosa che la dottoressa non riteneva affatto opportuna».
Perché tanta insistenza?
«Il rapporto di Helena Ranta, diffuso il 17 marzo alla stampa, riportava chiaramente la natura del documento, sottolineando che i commenti esprimevano "l'opinione personale dell'autrice" e non una comunicazione ufficiale. Ma nessuno ci fece caso: tutti vi lessero le prove dell'eccidio. L'Esercito di Liberazione del Kosovo e gli Stati uniti registrarono una vittoria strategica: l'esca di Račak era stata gettata e il pesce europeo aveva abboccato. Il 24 marzo cominciarono i bombardamenti».
Nel 2008 Helena Ranta ammise di aver subito pressioni da parte del capo missione dell'Osce William Walker e del ministero degli Esteri finlandese. In conclusione, lei come commenta la vicenda?
«L’intervento Nato contro Belgrado fu costantemente e ripetutamente chiesto dai kosovari albanesi che alla fine lo ottennero. E ci voleva un massacro, un crimine contro l'umanità, denunciato ma non ancora provato, per far digerire la guerra e chiarire al mondo da che parte stare. Ricordo che di quella missione facevano parte anche i russi, che la abbandonarono quando ai negoziati di Rambouillet fu chiaro che l’esito della vicenda era già deciso. E pensare che l’Osce era nata con l’intento di creare un ponte tra Occidente ed ex Patto di Varsavia. Sarebbe dovuto essere uno strumento di integrazione europea...».
Che lezioni può dare all'Ucraina il precedente del Kosovo?
«Credo che l’Ucraina abbia appreso e perfezionato molto bene la lezione del Kosovo... Ma sono due guerre molto diverse: una era circoscritta, questa rischia di avere esiti mondiali e fatali per l’intera umanità. La guerra è propaganda, sempre, da entrambe le parti. E il nostro compito di giornalisti dovrebbe essere quello di svelarne i meccanismi, non di assecondarli. Io ci ho almeno provato, ma trovo che il clima stia diventando irrespirabile per chiunque coltivi un legittimo dubbio. E pensare che il dubbio è per noi giornalisti un dovere deontologico prima che un diritto».