Televisione
October 04 2017
«Un gruppo di criminali e di fragilità». Con questa rapida formula, Michele Placido, regista dei primi due episodi, cattura l’essenza di «Suburra», la serie in dieci puntate disponibile su Netflix da venerdì 6 ottobre, la prima produzione originale italiana del colosso mondiale dello streaming. Criminali dal grilletto facile sono i tre giovani protagonisti, interpretati da Alessandro Borghi (Aureliano), Giacomo Ferrara (Spadino) ed Eduardo Valdarnini (Lele), ma si sentono addosso tutte le contorsioni emotive, le esaltazioni e le delusioni tipiche della loro età. Finiranno per allearsi, anche per sorreggersi a vicenda.
Borghi, nel cast dell’omonimo film del 2015 diretto da Stefano Sollima e di cui la serie rappresenta il prequel, si è trovato nel tilt logico di doversi ringiovanire pur essendo nel frattempo avanzato d’età: «Ha aiutato il trucco, avere eliminato la barba» racconta «ma soprattutto la minore quota di potere che il mio personaggio detiene rispetto al film. Lo definiscono i suoi errori, la sua capacità di sbagliare».
Ferrara presta invece il volto a un sinti, uno zingaro che rifiuta d’incastrarsi nelle tradizioni e nelle regole della sua famiglia. È tra le figure più poliedriche nello sviluppo narrativo, alle prese con un perenne dissidio per fare pace con sé stesso e accettare la sua sessualità: «Vive in una cultura fortemente teatrale, cerca con affanno un’identità. La sua cattiveria è figlia di una profonda sofferenza». Mentre dall’ansia della ribellione al padre in divisa, si scatena la discesa agli inferi di Lele-Valdarnini, che dal piccolo spaccio va a impantanarsi nei reati più gravi. Lo fa per distanziarsi da una presenza genitoriale che lo schiaccia, che vorrebbe fosse la sua copia, ne seguisse le orme. Arriverà a tradire chi gli è più vicino.
Ecco. C’è la mafia siciliana sullo sfondo che vuole un avamposto a Ostia, ci sono la corruzione inarrestabile della politica e della Chiesa, la loro imbarazzante incapacità di gestire con pulizia l’immenso potere a disposizione, ma la forza di questa versione dilatata di Suburra sta altrove. Nella sapidità del dettaglio, più che nella denuncia al marcio del sistema. Nel continuo oscillare tra crudeltà e pietà, tragedia e ironia dei suoi artefici. Nella profonda intimità, nelle traiettorie esistenziali dei suoi protagonisti. Al maschile, come al femminile.
«Se c’è una cosa che Netflix ci ha chiesto» svela la produttrice, Gina Gardini «è stata quella di dare peso alle donne, estremamente importanti per il pubblico della piattaforma. È stato utile. In una storia del genere potevano rimanere marginali, invece hanno finito per avere un ruolo decisivo». Che scandisce e dà spessore alla narrazione. Vale per la madre orgogliosa e la sposa snobbata di Spadino, figure di polso in un universo ancora patriarcale; si applica a Sara Monaschi (Claudia Gerini), manovratrice e marionetta dei traffici del Vaticano, fino alla sorpresa: la sorella di Aureliano, Livia, interpretata da Barbara Chichiarelli, all’esordio ma, scommessa facile di Placido e di uno degli altri registi, Andrea Molaioli, «predestinata a entrare tra le grandi nella prossima generazione di attrici italiane». «Mi ha aiutato essere una sorella maggiore nella vita» si schermisce lei: «Non sapevo quando la camera si fermava su di me, nel dubbio facevo ogni scena al massimo, poi magari mi stavano riprendendo le mani o i piedi».
Primo demiurgo di tutta la vicenda è Samurai, molto poco liberamente ispirato a Massimo Carminati, figura chiave dell’inchiesta Mafia Capitale. A portarlo sugli schermi in streaming è Francesco Acquaroli, strepitoso nell’indossare una maschera di spietata malvagità, un criminale che confessa di non avere fatto figli per non metterli a rischio, che ordina omicidi come fossero pacchi su Amazon, perde il sonno solo perché il suo piano diabolico non sembra andare come previsto. Si fa consumare dall’ossessione della sua malvagità: «Ma non è bidimensionale» sottolinea Acquaroli «ho lavorato per dargli una personalità. Certo, detto questo non capisco perché mi facciano fare sempre personaggi del genere». A giudicare dalle occhiate killer che è in grado di lanciare, non è difficile rispondere.
«Roma è ’unica città in cui Suburra poteva essere ambientata. Ha la forza politica di Washington, il potere economico di New York e quello gigantesco della Chiesa concentrati in dieci chilometri»
Suo inatteso socio oscuro diventa lentamente Amedeo Cinaglia, un politico marginale ed emarginato in Campidoglio, interpretato da un carismatico Filippo Nigro. Prima rifiuta il solo contatto con il malaffare, con un’istintiva repulsione fisica; finché, tentato, adulato, diventa intraprendente corruttore a sua volta. Una metamorfosi forse eccessiva, senz’altro brusca e radicale, ma che l’attore reputa comunque logica: «Quello di Cinaglia» ragiona «è un percorso di tormento emotivo. La reazione di chi ha preso solo porte in faccia». «Una volta che si supera una certa soglia» interviene Acquaroli «è come se scattasse una fionda. La stanchezza, la delusione, generano un istinto demoniaco. Succede a tutti quelli che entrano nella Suburra, che è un po’ come la casa degli orrori di un luna park. Non conosci cosa ti aspetta, magari all’inizio ti spaventa, ma sai che vuoi farne parte e poi ci prendi gusto».
Oltre che in Italia, la serie sarà visibile in quasi tutto il mondo, raggiungendo un pubblico potenziale superiore a 100 milioni di spettatori. «Non ci ho pensato, altrimenti mi sarei dovuto alzare con un’ansia pazzesca tutte le mattine» commenta il giovane Eduardo Valdarnini. Né c’è timore che alcuni riferimenti troppo italiani, alcune dimensioni e sfumature anche lessicali molto locali, non siano colte a dovere lontano dal nostro Paese: «La corruttibilità umana» chiosa Nigro «è un topos, si presta a una lettura universale».
Mentre la vera protagonista, presente in ogni scena, dalla prima all’ultima puntata, è Roma. «L’unica città» dice Gina Gardini «in cui Suburra poteva essere ambientata. Ha la forza politica di Washington, il potere economico di New York e quello gigantesco della Chiesa concentrati in dieci chilometri». Con una precisa scelta stilistica, una fotografia livida la coglie in tanti attimi di quiete sfolgorante: dall’alto, in silenzio, come se cullasse i drammi che la agitano con una complice arrendevolezza. Pronta a rivelare la sua vera natura, inchiodata nel tema musicale della serie che chiude ogni puntata e scandisce il momento più lirico della stagione: «Santa e dissoluta Roma ama e non perdona, Roma ti divora come un barracuda». Magnifica e feroce, maestosa e crudele, bella e criminale com’è.