Calcio
April 21 2021
Adesso che la guerra è finita e il nemico è stato abbattuto, la Superlega è tornata nel cassetto e ben difficilmente potrà essere ritirata fuori anche solo per sventolarla come minaccia, sul tavolo restano squadernati tutti i temi della crisi che hanno spinto da 'sporca dozzina' a tentare il blitz, tramutatosi in uno spettacolare suicidio politico e sportivo. Non è un passaggio da poco, perché le ragioni del malcontento sono varie ed articolate e le risposte dei vertici del calcio europeo e mondiale, fin qui, ampiamente insoddisfacenti. Non bastava prima e non può bastare adesso la promessa di una riforma dei format delle coppe europee dal 2024, un'eternità mentre la casa brucia e i top club rischiano di camminare pericolosamente sul cornicione del default economico.
Le due giornate della (ex) Super League hanno lasciato macerie sul terreno. Nei rapporti personali tra i protagonisti, nei legami e mandati istituzionali dentro i palazzi del potere e anche nel panorama di chi - questa crisi - è stato chiamato a raccontarla. E' stato surreale vedere i quotidiani di mezza Europa, non solo in Italia, inseguire l'onda della convenienza del proprio riferimento: o contro, o a favore. Senza lo sforzo di spiegare alla gente cosa stesse davvero accadendo. Un regolamento dei conti cruento da cui sarà difficile tornare indietro.
Eppure non esiste alternativa perché senza recepire le istanze dei ribelli il calcio rischia di morire. Fifa, Uefa, federazioni e leghe non possono più far finta di non capire che il pallone è un'industria e non da oggi e che come tale va trattata. Fifa ed Uefa non possono continuare a gestire i ricavi miliardari prodotti sugli investimenti delle società, guadagnandoci, rivestendo nello stesso momento il doppio ruolo di regolatori e promotori. Non possono vendere autonomamente un bene per il quale non spendono un euro. L'epoca dei fatturati crescenti e delle competizioni create ad arte per aumentare i guadagni di Zurigo (Fifa) e Nyon (Uefa) deve finire.
Chi investe ha il diritto di sedere nelle stanze dove si decide l'utilizzo dei soldi che si ricavano. Ha il diritto di scrivere le regole e pretendere le riforme. In Italia, ad esempio, chi investe miliardi di euro non può sottostare al teatrino della Lega in cui anche il più piccolo ha quasi un diritto di veto pur portando interessi troppo diversi per essere coerenti con il modello di business del più grande. Non è possibile che da vent'anni si discuta di riduzione a 18 squadre della Serie A e non lo si ottenga. E nemmeno che, quando si parla di alleggerire i calendari, l'unica idea sia quella di tagliare partite dei club (che reggono il sistema), aumentando quelle delle nazionali (romantiche ma che viaggiano a traino).
Servono norme vere e rapide per razionalizzare i costi. Non è possibile che la riforma dei rapporti con gli agenti che drenano montagne di soldi al sistema. Nel 2020 sono costati 496 milioni di dollari in tutto il mondo di cui la quasi totalità (472) in Europa. Eppure fanno il bello e cattivo tempo senza nessun ente regolatore che aiuti i club, ad esempio liberandoli dal potere ricattatorio delle scadenze di contratto dei top player. Il salary cap è un'ipotesi, ma si è sempre scontrata contro le normative internazionali. Ecco, quei governi che si sono scagliati con forza contro la Super League farebbero bene ora a impegnare le stesse energie per dotare l'industria calcio di un sistema regolatorio che aiuti il contenimento dei costi.
Troppo comodo evocare il legame sociale e culturale del pallone per sostenere la protesta dei tifosi e poi girarsi dall'altra parte il giorno successivo. Le perdite da pandemia sono spaventose: 6-8 miliardi di euro stimati in un paio di anni. Senza arrivare a immaginare ristori per i ricchi del pallone, quali sono le risorse messe in campo dalla politica in Europa adesso che ha scelto di intervenire a gamba tesa spiegando che il calcio deve restare solidale e di tutti, togliendo agli investitori (fondi e proprietà da tutto il mondo) uno strumento per inseguire la sostenibilità?