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(Ansa)
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Un ex Pci ammette, 30 anni dopo Tangentopoli: «Anche noi facevamo parte del sistema»

Finalmente un ex dirigente comunista lo dice a chiare lettere: «Il principio che ispirò Mani Pulite si basava sul primato del potere giudiziario, ed era in contrasto con il disegno costituzionale». Evviva. Ci sono voluti più di 30 anni, ma alla fine la «rivoluzione giudiziaria» di Tangentopoli viene definita per quel che fu: un atto per molti versi ai limiti dell’incostituzionalità.

A dichiararlo in una lunga intervista al Corriere della Sera, è Giovanni Pellegrino, dal 1990 al 2001 parlamentare del Pci, del Pds e infine dell’Ulivo, nonché presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei deputati nel 1992, proprio l’anno in cui scoppiò la grande inchiesta sulla corruzione, guidata dall’allora sostituto procuratore Antonio Di Pietro e dal Pool di Mani Pulite.

Garantista da sempre, oggi Pellegrino racconta come Tangentopoli fu vissuta dal suo partito. Dal 1992 al 1993, in realtà, il ciclone si abbatté soprattutto sui partiti di governo: prima sul Partito socialista di Bettino Craxi, il leader riformatore, già presidente del Consiglio, che era visto dai comunisti come il loro peggior nemico; poi sulla Democrazia cristiana e sui suoi alleati «laici», dal Partito liberale a quello repubblicano, fino ai socialdemocratici. Infine l’inchiesta colpì anche la Lega Nord di Umberto Bossi, il più nuovo tra i partiti. Le indagini, però, sembravano voler evitare gli esponenti del Partito comunista, appena ribattezzato Partito democratico della sinistra dal segretario Achille Occhetto. Soltanto i «miglioristi» dell’ala più moderata del Pds venivano indagati. Ma nell’intervista Pellegrino finalmente conferma una verità sempre negata dai successori di Enrico Berlinguer, e cioè che anche il Pci-Pds era parte integrante del «sistema». I comunisti erano stati soltanto un po’ più accorti, di certo più furbi degli altri: «Apparentemente il Pds non prendeva soldi» dichiara oggi Pellegrino, «però nella cordata vincitrice di ogni appalto c'era sempre una cooperativa rossa con una percentuale dei lavori. Dal 10 al 15%. Rivedo ancora i nostri bellissimi congressi dove campeggiavano i cartelloni pubblicitari delle cooperative. Era chiaro il meccanismo di contabilizzazione dei finanziamenti irregolari. Ed era altrettanto chiaro che anche noi facevamo parte del sistema: una sorta di Costituzione materiale del Paese».

Pellegrino, che in Parlamento è stato anche presidente della Commissione d’inchiesta sulle stragi, ricorda che nel 1992, vista la situazione, altri due senatori del Pds, «Giangiacomo Migone e se non ricordo male Filippo Cavazzuti, mi chiesero di accompagnarli a un incontro con Achille Occhetto a Botteghe Oscure». In quell’incontro Pellegrino ricorda che «Migone disse al segretario: «È necessario che il Partito riconosca di aver ricevuto soldi irregolarmente». E rammenta che Occhetto rispose: «Io non so nulla. Non ho mai saputo nulla». L’ex senatore riconosce però che questo era vero solo parte: «Il modello di finanziamento del Pci», prosegue Pellegrino, «era stato ideato da Palmiro Togliatti, che aveva affidato al suo consigliere politico Eugenio Reale l'organizzazione di una rete di imprese. Il Migliore voleva che la dirigenza del Pci restasse fuori dalla gestione dei fondi. Ma le imprese erano il vero polmone economico del partito, specie quelle che avevano rapporti commerciali con l'Unione Sovietica. Insomma, le forze di governo erano finanziate dalla Cia e da Confindustria, mentre il Pci era finanziato dal Kgb e dalle società che sostanzialmente gli appartenevano».

Pellegrino aggiunge che gli ultimi segretari amministrativi del Pci-Pds erano a conoscenza dei finanziamenti illeciti. E ricorda un altro incontro: «La torsione giustizialista impressa dalla Procura di Milano aveva iniziato a preoccuparmi», dice, «perché contestava come reati di corruzione aggravata tutti i finanziamenti irregolari ai partiti che andava accertando. Avevo il timore che così anche il Pci sarebbe stato coinvolto nell'inchiesta. Perciò decisi di parlarne a Massimo D'Alema». Il quale, in un incontro avvenuto nella primavera del 1993, tranquillizzò Pellegrino con queste parole: «Luciano mi ha detto che possiamo stare tranquilli, perché Mani Pulite non se la prenderà con noi». Luciano, spiega ovviamente Pellegrino, era Violante, cioè l’ex magistrato che in quegli anni curava la politica giudiziaria del Partito e teneva i contatti con le principali Procure italiane.

Pellegrino insiste oggi a dire quanto pensava allora, e cioè che «Mani Pulite non tendeva a colpire la corruzione amministrativa, ma il finanziamento irregolare della politica per svuotare di forza i partiti. Tutti i partiti. Per renderli deboli finanziariamente e politicamente. E per realizzare così il primato del potere giudiziario». Una specie di strisciante colpo di Stato, insomma. E conclude che il disegno non si realizzò soltanto «perché la magistratura è un potere diffuso: ognuno fa come gli pare. Infatti la Procura di Brescia colpì Di Pietro, che aveva ambizioni politiche». In effetti, come ricorda il Corriere, dopo aver lasciato la toga nel dicembre 1996, Di Pietro fu ministro del governo dell’Ulivo, guidato da Romano Prodi e poi leader di partito. «La sua ambizione», aggiunge Pellegrino, «era però diventare presidente del Consiglio. Se penso a quegli anni mi viene da piangere. Mani Pulite non realizzò il suo disegno ma distrusse il sistema dei partiti. Avevo stima dei magistrati di Milano (…) ma il loro principio, che si basava sul primato del potere giudiziario, era in contrasto con il disegno costituzionale».

Va detto, però, che sia Pellegrino sia il Corriere dimenticano un particolare fondamentale. Quando Di Pietro si dimise dalla magistratura, il suo ingresso in politica fu favorito proprio da D’Alema e dal Pds, che nel 1997 lo candidarono alle elezioni suppletive nel Mugello fiorentino. E lo fecero eleggere al Senato.

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