Taiwan: la tensione resta alta

Non accenna a diminuire la tensione su Taiwan. “Qualsiasi piano per interferire negli affari interni della Cina è destinato a incontrare la forte opposizione di tutti i cinesi. E qualsiasi mossa per ostacolare la riunificazione della Cina è destinata a essere schiacciata dalle ruote della storia”, ha dichiarato minacciosamente il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, sabato scorso, parlando alle Nazioni Unite. “Fin dai tempi antichi, Taiwan è stata una parte inseparabile della sovranità e dell'integrità territoriale della Cina”, ha proseguito. Inoltre, nel corso di un colloquio con il segretario di Stato americano Tony Blinken, Wang Yi ha accusato Washington di inviare “segnali molto sbagliati e pericolosi” sul dossier taiwanese.

Cominciamo subito col ricordare che, dal punto di vista tecnico e giuridico, Pechino non ha alcun diritto sull’isola. Taiwan non ha infatti mai riconosciuto né è mai stata sotto il controllo della Repubblica popolare cinese, istituita da Mao Zedong nel 1949. La stessa risoluzione Onu del 1971, che conferì alla Repubblica popolare il seggio al consiglio di sicurezza, non fa menzione dello status di Taiwan. Il nodo è di carattere geopolitico, vista soprattutto la crescente centralità dei semiconduttori (di cui l’isola è tra i principali produttori al mondo). Come è noto, la tensione è tornata a crescere nelle scorse settimane, dopo che il Dragone ha effettuato le più grandi esercitazioni militari mai svolte nelle acque intorno a Taipei. Si tratta, a ben vedere, di una partita complicata.

Da una parte, Xi Jinping deve muoversi con cautela, in attesa che il congresso del Partito comunista del prossimo ottobre gli conferisca un terzo mandato presidenziale: ragion per cui l’attuale leader cinese sa di poter alzare il tiro solo fino a un certo punto in attesa di quella data. Dall’altra parte, la Casa Bianca fatica a ripristinare la deterrenza nei confronti di Pechino. È pur vero che Joe Biden ha chiesto di recente al Congresso l’ok per una nuova poderosa fornitura di armamenti all’isola. Tuttavia è altrettanto vero che il principio della deterrenza non si basa esclusivamente sul fattore militare ma anche su elementi di tipo politico. Sotto questo punto di vista, il problema è che sul dossier cinese (e in particolare su quello taiwanese) l’amministrazione Biden ha finora manifestato divisioni e irresolutezza. Tra agosto 2021 e settembre 2022 l’attuale presidente americano ha detto quattro volte che avrebbe difeso l’isola in caso di invasione cinese. E tutte e quattro le volte è stato immediatamente smentito dal suo stesso staff. Va da sé che simili situazioni azzoppano la capacità di deterrenza, spingendo indirettamente l’avversario ad osare. D’altronde, spaccature nell’attuale amministrazione americana si registrano anche sul piano più generale dei rapporti con Pechino. Da una parte, c’è chi – come Blinken – invoca (giustamente) severità in nome dei diritti umani; dall’altra, c’è chi – come John Kerry – auspica una distensione di fatto in nome di una (non meglio precisata) cooperazione climatica.

Ma anche la Repubblica popolare ha i suoi problemi. Al vertice di Samarcanda, Xi Jinping ha mostrato notevole preoccupazione nei confronti dell’andamento della guerra in Ucraina. Tutto questo, mentre il governo cinese si è mostrato piuttosto freddo davanti all’annuncio, effettuato da Vladimir Putin, della mobilitazione militare e dei referendum nelle aree ucraine occupate. Attenzione: questo non vuol dire che Pechino si sia improvvisamente convertita alla causa occidentale. Vuol dire semmai che, con ogni probabilità, Xi considera Putin in crescente difficoltà e che, forse, comincia a considerare controproducente continuare a fornirgli solido appoggio (come ha fatto finora). Inoltre, nonostante si tratti di due dossier non completamente sovrapponibili sotto numerosi punti di vista, è possibile che il leader cinese possa iniziare a guardare al caso taiwanese attraverso le lenti di quello ucraino.

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