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December 12 2017
L'attacco a New York dell'11 dicembre impone una riflessione sulle dinamiche che riguardano la sicurezza dell'Italia.
Vale a dire: qual è capacità italiana di continuare a essere efficace nel contrasto e nella prevenzione delle minacce del terrorismo islamista, in particolare quella dei radicalizzati della nuova generazione.
Questione fondamentale: il terrorismo contemporaneo, pur imprevedibile, obbliga le istituzioni a porre l'attenzione su qualunque soggetto legato a gruppi jihadisti o ai semplici simpatizzanti.
Ma se i potenziali terroristi, attentatori suicidi o accoltellatori, aumentano, le forze di sicurezza non fanno altrettanto.
Ciò implica una dispersione delle forze e il rischio che qualche terrorista sfugga alla maglia dei controlli.
In Italia, come nel resto d'Europa, sono sempre più numerosi gli aspiranti jihadisti auto-radicalizzati che vengono fermati poco prima di portare a compimento un attacco terroristico: 230 dall'inizio del 2015, quasi la metà solamente nel 2017.
Numeri che confermano come la minaccia terroristica sia un fenomeno sempre più sociale e sempre meno "militare".
L'analisi dei dati dei paesi possibile bersaglio, mostra un sempre più ampio bacino di reclutamento potenziale a disposizione dei gruppi terroristici. Sono soggetti che però - in media - non sono in possesso delle capacità tecniche e militari necessarie per organizzare e portare a compimento, con successo, un attacco.
Lo dimostrano l'azione di New York e soprattutto i sempre più numerosi episodi violenti che vedono l'impiego di armi "di fortuna" (dai coltelli agli autoveicoli).
Da Bruxelles, a Parigi diminuiscono gli effetti diretti degli attacchi (le vittime del terrore sono sempre meno), e questo dimostra una progressiva riduzione delle capacità operative del terrorismo.
Rimane invece costante l'attenzione mediatica a essi riservata, e con questo l'effetto psicologico sull'opinione pubblica.
Un trend confermato nell'ultimo anno che sancisce una fase di rallentamento del fenomeno Isis e dei suoi affiliati (o ispirati) che potrebbe però riacutizzarsi con la fine dello Stato islamico come realtà fisica (la cui fase statuale in Siria e Iraq è ormai conclusa) e il rientro dei foreign terrorist fighter dai teatri operativi, o il trasferimento verso altre aree di conflitto, dall'Afghanistan alla Tunisia, alla Libia, come i fatti già dimostrano.
Quella delle forze di sicurezza nell'opera di contrasto al terrorismo è un'attenzione che non può venire meno ma che non può garantire un'efficace risposta sul lungo periodo.
Nel caso italiano potremmo correre il rischio di raggiungimento del “livello di saturazione” della capacità di contenimento e contrasto dello strumento intelligence/anti-terrorismo. Strumento che potrebbe non essere adeguato in caso di incontenibile aumento del bacino di "aspiranti jihadisti" che ricadono nella prima generazione di immigrati.
Aumentano, tra gli jihadisti, gli adolescenti e i giovani adulti, con un'età compresa tra 15/27 anni, giunti in Italia in tenera età con la famiglia di origine; un'evoluzione che obbliga gli organi investigativi (Digos, Ros e servizi segreti) a concentrarsi su un numero sempre maggiore di radicalizzati posti sotto osservazione, ed espulsi dal territorio nazionale nel caso di soggetti non aventi cittadinanza italiana.
Un aumento del bacino jihadista che potrebbe mettere in crisi le capacità di azione delle forze di sicurezza, in crescente difficoltà a causa dei tagli dei finanziamenti e degli organici che ne limitano le capacità operative.
Una situazione generale che, nel suo complesso, mostra sempre più evidenti criticità alle quali è necessario che lo Stato ponga un limite, oltre a maggiori e necessari investimenti, attraverso la valorizzazione delle forze e la razionalizzazione delle risorse e degli strumenti esistenti.
Un esempio, la Digos della Polizia di Stato e il Ros (Raggruppamento Operativo Speciale) dei Carabinieri operano sulla stessa tipologia di minaccia, con una dispendiosa duplicazione di strutture, personale e strumenti.
Oggi questo non è più proponibile, certamente per l'aumento di costi non giustificati, ma ancor più per il rallentamento delle indagini e il necessario coordinamento che ciò impone.
Così come non è più sostenibile un sistema che concentri il maggiore dei propri sforzi sul piano repressivo e del contrasto; al contrario, è sul piano della prevenzione che l'Italia dovrà operare, con gli adeguati strumenti giuridici, legislativi, sociali e, prima di tutto, culturali.