The Post, Spielberg e il giornalismo "morale"- Recensione
Tra tanti uomini di discreta importanza – per esempio Richard Nixon, Robert McNamara e altri esponenti o “ex” dell’establishment istituzionale e culturale americano – sbuca prepotente una figura femminile. Proprio allora, nel mezzo del 1971, con le donne ancora un po’ intontite e confinate nei piani bassi delle strutture di vertice. Eccola, così, Katharine Meyer Graham prendere in mano il Washington Post (del quale è editrice da qualche anno avendolo ereditato da suo marito Philip che s’è suicidato) e portarlo allo scontro, vittorioso, contro il Potere, affermando una volta per tutte il diritto alla libertà di stampa. Anche questo èThe Post di Steven Spielberg (uscita in sala il 1° febbraio, durata 118’), che ricompone in modo magistrale il caso dei Pentagon Papers lasciando però che sia Meryl Streep a dominarlo nella parte della Graham con una presenza scenica di molte, fragorose valenze.
Quelle scelte improvvide e suicide nel Sudest asiatico
Naturalmente in questa storia – che da un certo punto di vista sembrerebbe il prequel di Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula (1976) sullo scandalo del Watergate avvenuto subito dopo i fatti narrati in The Post – gli eventi di cronaca restano centrali. E girano attorno a quell’incartamento top secret trafugato dal Pentagono e finito sulle pagine dei giornali.
Andando con ordine: durante gli anni Sessanta, quando è ancora Segretario della Difesa, Robert McNamara (lo interpreta Bruce Greenwood) realizza col suo staff un dossier di 7000 pagine sulle politiche americane nel Sud Est asiatico. Scelte improvvide, per non dire di peggio, da Truman in poi passando per Eisenhower, Kennedy e Johnson finendo con Nixon in carica. Occhio al Vietnam, soprattutto. E alla palmare impossibilità di vincerla, quella dannata guerra: con ogni le valutazione, implicita e tragica, sul sacrificio calcolato di migliaia di giovani soldati americani mandati inutilmente a morire nella giungla e sul delta del Mekong. Ovvio, insomma, che il dossier scotti e venga secretato.
7000 pagine top secret svelate agli americani
Così arriviamo al 1971, presente narrativo del film. Quando il New York Times viene in possesso di quelle carte (7000 pagine) dopo che Daniel Ellsberg (Matthew Rhys), mente del Pentagono oramai divorato dai dubbi sull’utilità della spedizione vietnamita, le ha fotocopiate e passate al giornale con l’obiettivo di renderle pubbliche. Il botto è sonoro, anche per Ben Bradlee (Tom Hanks) direttore-caterpillar del Washington Post divorato dal dispetto per l’improvvisa fortuna del concorrente, che però dura poco visto che Nixon – tra l’altro in corsa per la sua riconferma – scatena la giustizia e impone lo stop alle pubblicazioni.
Orgoglio e riscossa nel cuore del “Washington Post”
Troppo tardi. Bradlee fiuta il colpo e come un avvoltoio piomba sul dossier chiedendo alla sua editrice di pubblicarlo, sostituendosi di fatto al NYT imbavagliato. E parte da qui il grandioso percorso di Meryl Streep, una Graham fino ad allora tenuta in scarsa considerazione in quanto donna in un mondo americano fatto d’uomini, divorata dal dilemma, condizionata da amicizie importanti (lo stesso McNamara, tra l’altro), pressata da una parte della redazione che invita alla prudenza viste la censura e le minacce già consumate sul quotidiano newyorkese, angosciata dall’esito nefasto che un okay potrebbe avere sulla vita del suo stesso giornale. Eppure.
Un raffinatissimo “salto” di generi cinematografici
Eppure arriva il “sì”. Accada quel che accada. Il diritto alla libertà di stampa non ha prezzo, l’orgoglio femminile si riscatta affiancando editrice e direttore in un atto di coraggio e di dovere che suona come elogio e celebrazione del mestiere di giornalista in cifra, per fortuna, antiretorica e non apologetica. Magari “eroica”, quello sì, certo meno grigia, uniformante e isterica di oggi. Con una donna nell’ombelico della storia (del film e della Storia tout court) che Spielberg propone spostando, di fatto, l’asse del racconto da un genere a un altro. Cioè dal giornalismo investigativo e thrilling a quello “morale” e militante approdando, poi, all’analisi del comportamento e delle sfumature psicologiche di un’editrice alle prese con la decisione più pertinente alla salute futura del suo giornale, “gioiello di famiglia” ereditato anni prima del marito Philip Graham, morto suicida, che a sua volta l’aveva ricevuto dal suocero Eugene Meyer.
Il capolavoro scenografico nella redazione anni 70
Già, il giornale. Lo stesso dell’inchiesta Watergate condotta dai due reporter del “Post” Bob Woodward e Carl Bernstein e sempre sotto la guida del carismatico Bradlee (morto quattro anni fa a 93 anni). Spielberg lo ripristina nei dettagli attraverso un capolavoro scenografico firmato dal due volte premio Oscar Rick Carter, la fotografia vintage 35mm di Janusz Kaminski (diciottesimo film con Spielberg e due Oscar con Schindler’s List e Salvate il soldato Ryan) e i costumi di Ann Roth.
Un mondo perduto del quale pare di avvertire i profumi unici tra le cicche di sigarette nei posacenere, esito dei fumi flottanti a mezz’aria come si usava nelle redazioni d’una volta; il ticchettìo incessante strepitante delle macchine per scrivere nell’open space; i bossoli per la posta pneumatica da spedire in tipografia; le linotype trasudanti grasso e gocciolanti piombo fuso a comporre, riga su riga, le colonne del giornale; lo slancio grandioso della rotativa che annuncia la stampa del giornale con le rivelazioni sui Pentagon Papers facendo “ballare”, con la sua corsa, scrivanie, bicchieri colmi d’acqua, lampade, financo le pareti.
Un dramma realistico, mai romanzato e retorico
Trema la redazione e trema l’America, specie nei suoi vertici. Sussulti e squassi diversi e, per così dire, opposti nelle loro nature divergenti e centrifughe. Nella tensione narrativa che la regìa, nonostante l’epilogo già scritto nelle cronache e nella vicenda medesima, tiene sempre a livelli eccelsi e pur vigilati nelle misure di un montaggio dinamico e di una sceneggiatura elegante (di Liz Hannah e Josh Singer) capaci di configurare il dramma in una misura estremamente realistica, mai “romanzata”, oratoria o ridondante.
Merito, naturalmente, anche degli splendidi attori, su tutti la Meryl Streep di smisurate elasticità tonali nel già descritto percorso di maturazione manageriale; e il Tom Hanks che in quel percorso pare accompagnarla, spalancandole, appartato e decisivo allo stesso tempo, la strada vincente. Un’altra finezza di Spielberg, che in tutto questo non trascura certo l’estensione spettacolare dell’azione. Egli, dello spettacolo è (anche) uno specialista e sa benissimo come e dove pizzicarne le corde.
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