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July 13 2016
Per Lookout news
Dopo Margaret Thatcher, un’altra donna – anche lei conservatrice – da oggi occupa il numero 10 di Downing Street: si chiama Theresa May, è l’attuale ministro degli Interni del governo, e sostituirà a breve il dimissionario David Cameron, che ha rinunciato alla premiership dopo il terremoto del referendum sulla Brexit.
La biografia
Theresa Mary Brasier nasce il primo ottobre 1956 a Eastbourne, East Sussex, una ridente cittadina affacciata sulla Manica. È figlia di Zaidee Brasier e del reverendo Hubert Brasier, un sacerdote della chiesa anglicana che morirà in un incidente stradale nel 1981. Theresa frequenta la scuola di Wheatley Park nell’Oxfordshire e prosegue gli studi al St Hugh’s College Oxford, specializzandosi in geografia. La sua passione per la politica inizia in giovane età anche grazie all’impegno politico della madre, una convinta conservatrice. Ancora adolescente, partecipa alla campagna elettorale di Margaret Thatcher del 1974 e presto diventa a tutti gli effetti un membro dei Tories. Durante gli studi al St Hugh’s College di Oxford conosce e frequenta il futuro premier indiano, Benazir Bhutto, che la introduce alla conoscenza di Philip May, con il quale convolerà a nozze nel 1980 e che è ancora oggi l’attuale marito. La coppia non ha figli.
Il suo primo lavoro è presso la Banca d’Inghilterra dal 1985 al 1997, come consulente finanziario presso l’Association for Payment Clearing Services (APACS), dove si distingue nel ruolo di responsabile dell’Unità Affari europei. Ma tra il 1986 e il 1994 è già assessore a Merton, sobborgo di Londra. Dopodiché, con l’aiuto di Philip Hammond (oggi segretario di Stato per gli Affari Esteri del governo Cameron) e di Sir George Young (già “chief whip” del primo governo Cameron e influente figura del partito), riesce a entrare in parlamento grazie a un seggio nella circoscrizione di Maidenhead nel 1997, anno in cui il partito laburista conosce una sconfitta storica.
Eletta deputato per il partito conservatore nelle elezioni generali del ’97, da allora la sua carriera è in costante ascesa: viene prima nominata ministro dell’Interno nel 2010 all’interno del primo governo Cameron e poi, rieletta il 7 maggio 2015 con 35.453 voti e il 65,8% delle preferenze, mantiene tutt’oggi la carica.
Una “fanatica del lavoro”
Con responsabilità su temi cruciali per la nazione quali la gestione della polizia, l’immigrazione e il terrorismo, Theresa May ha oggi il controllo di uno dei più grandi e più impegnativi ministeri. Oltre a essere una delle poche donne dell’intero governo (e anche il suo membro più anziano), è senza dubbio tra le figure più significative del partito conservatore già dal 2002, quando in qualità di presidente del partito conia la definizione di “nasty party”, ovvero il “brutto partito” da rifondare. La sua diagnosi puntuale e severa del problema d’immagine dei Tories da allora in avanti apre la strada alla modernizzazione e al rinnovamento del partito.
Già nel 2013 Ed Miliband, ex leader del partito laburista, la dipingeva come capo dell’opposizione in un futuro governo a guida laburista, preconizzando che presto o tardi avrebbe scalzato la figura di David Cameron. Cameron all’epoca rise di queste affermazioni ma, se anche la storia è andata diversamente per il Labour, Miliband aveva comunque azzeccato in pieno il sorpasso di Theresa su Cameron.
Se i giornali di gossip parlano della più importante figura femminile del governo conservatore più che altro commentando le bizzarrie nella scelta delle calzature – Theresa ama esibire scarpe leopardate, zebrate, rosso acceso o comunque dal gusto sempre eccentrico – la sua vita e la sua immagine privata sono quelle di una donna schiva, che bada molto alla sostanza ed è considerata una “fanatica del lavoro”. Non è riuscita a nascondere solo il diabete, anzi lo ha rivelato con serenità e trasparenza. Per carpirne il carattere riservato, basti dire che quando le viene chiesto chi sia il suo modello o personaggio preferito, risponde sempre “Geoff Boycott”. Il quale non è né un politico né uno statista, ma un grande giocatore di cricket del passato.
I dossier più caldi del ministro
Per quanto riguarda i risultati nel lavoro, tra i dossier più caldi che May ha dovuto affrontare da ministro, vanno menzionati la rendition dell’imam Abu Qatada in Giordania (è il caso del sospetto terrorista detenuto nel Regno Unito ed estradato ad Amman, con la garanzia della Giordania che non avrebbe subito torture, in accordo con la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo); la gestione della retribuzione e delle condizioni di servizio della polizia britannica (presa in giro e attaccata in quanto donna durante più di un’assemblea del Sindacato di Polizia, Theresa ha sempre risposto con freddezza e senza tradire la minima emozione); ma soprattutto la gestione del caos migranti che negli ultimi anni hanno attraversato la Manica per raggiungere Londra e il resto del paese.
Chi la conosce bene dice che Theresa May ha subordinato qualsiasi altro impegno al successo della riduzione progressiva del numero di migranti dai circa 200mila segnalati alle poche migliaia entro il 2018. Un argomento in più che potrebbe portare come dote con la sua designazione a nuovo premier conservatore del Regno Unito.
La questione Brexit
Ma il dossier forse più caldo è quello che Theresa May deve ancora affrontare: la Brexit. Dopo il terremoto politico seguito all’esito referendum meno previsto della storia britannica, il premier May dovrà aprire la trattativa con l’Unione Europea per l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona e l’uscita graduale di Londra dal club dei 28 Paesi membri.
Peccato che la May fosse una convinta anti-Brexit. Ecco cosa diceva in proposito lo scorso aprile: “Penso che dovremmo rimanere all’interno della UE non perché penso che siamo troppo piccoli per prosperare nel mondo, non perché sono pessimista sulla capacità della Gran Bretagna di agire sulla scena internazionale. Penso che sia giusto per noi rimanere proprio perché credo nella forza della Gran Bretagna, nel nostro peso economico, diplomatico e militare, perché sono ottimista sul nostro futuro, perché credo nella nostra capacità di guidare e non solo di seguire”. Adesso, invece, con lucido realismo afferma che la parola d’ordine è: “Brexit means Brexit“.