Economia
October 06 2017
Il primo gesto di pace, dopo mesi e settimane di tensioni, è arrivato da Arnaud de Puyfontaine, presidente di Tim e rappresentante dell’azionista di maggioranza relativa di Vivendi: “siamo pronti a discutere col governo”, ha detto il manager, facendo riferimento al possibile scorporo della rete telefonica nazionale, che l’ex-monopolista di Stato detiene ancora al proprio interno e che per molti anni ha considerato un asset irrinunciabile.
L’ipotesi è che la rete rimanga sostanzialmente di proprietà di Tim ma venga inserita in una società controllata, in modo tale che il governo possa “sorvegliare” con più facilità un’ infrastruttura considerata strategica per l’economia nazionale, soprattutto ora che il colosso delle telecomunicazioni è finito nelle mani di un gruppo straniero come Vivendi.
La questione della rete, però, è soltanto una delle tante partite in cui sono impegnati i vertici di Tim e i suoi soci transalpini che, nei mesi scorsi, hanno ingaggiato un duello a distanza con diversi attori: prima con il governo guidato da Matteo Renzi, poi con una grande azienda come Mediaset e infine pure con l’attuale esecutivo presieduto da Paolo Gentiloni, in particolare con il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda.
Per capire queste vicende piuttosto intricate, bisogna però compiere qualche passo a ritoso. Vivendi, che è un colosso dei media controllato dal finanziere Vincent Bolloré, negli anni scorsi ha investito pesantemente in Italia. Ha comprato una partecipazione rilevante in Tim e ha fatto la stessa cosa in Mediaset, guardandosi bene dal superare la soglia del 30%, oltre la quale scatta l’obbligo di lanciare un’opa (offerta pubblica di acquisto) sul 100% del capitale.
Con Mediaset, la partita si è fatta infuocata. L'azionista controllante Fininvest ha presentato infatti un esposto contro Vivendi accusandola di aver fatto fallire all’improvviso le trattative per una potenziale partnership industriale (quella su Mediaset Premium), allo scopo di far calare le quotazioni in borsa del gruppo televisivo del Biscione e lanciare poi una scalata.
Proprio ieri, la Guardia di Finanza ha dato esecuzione a una rogatoria internazionale e sequestrato dei documenti a Parigi, nella sede di Vivendi e del gruppo bancario Natixis, per verificare come sono andati i fatti.
Se in Mediaset i francesi si sono imbattuti contro l’azionista di maggioranza Fininvest, in Tim hanno invece incontrato molti meno ostacoli. Oggi, infatti, il gruppo transalpino è di fatto il dominus della società telefonica pur possedendo una quota attorno al 24% del capitale. Vivendi decide le nomine che contano, in primis quella dei manager-chiave.
Non a caso, alla fine di luglio, i soci francesi hanno dato il ben servito all’ex amministratore delegato, Flavio Cattaneo, sostituendolo pochi mesi dopo con l’israeliano Amos Genish. L’unico che può e vuole contrastare Vivendi dentro Tim, non essendoci azionisti di gran peso, è proprio il governo di Roma, che ha in mano un’arma potente.
Si tratta dei golden power, poteri speciali che sono regolati dauna legge di 5 anni fa (ed esistenti in tutta Europa) con cui il governo di un paese dell’Ue può decidere di interferire nella vita e nella gestione dialcune aziende strategiche di rilevanza nazionale, anche se non sono partecipate dallo Stato. E’ il caso di grandi imprese come Tim che gestiscono reti nel campo dei servizi pubblici essenziali come le telecomunicazioni, i trasporti o l’energia.
Grazie ai golden power, lo Stato può per esempio mettere il veto sulle decisioni assunte dall’assemblea di una società su operazioni straordinarie come le fusioni e le acquisizioni oppure, quando un’impresa strategica italiana viene comprata da qualche soggetto straniero come Vivendi, il governo può imporre certe condizioni su determinate decisioni del management.
E’ proprio quello che vuol fare con Tim il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda. Vuol esercitare i golden power perché Vivendi, dopo aver conquistato il controllo di fatto sull’azienda telefonica, aveva l’obbligo di tenere informato il governo, trattandosi di un’impresa strategica per l’economia nazionale.
Se Calenda e il governo avranno ragione davanti ai giudici in questo braccio di ferro con i francesi, a Vivendi potrà essere comminata una multa fino a un massimo di 300 milioni di euro, corrispondente a circa l’1% del fatturato. Per questo, andare al muro contro muro con l’esecutivo è una scelta rischiosa per Bolloré e soci. Meglio dare segnali di pace come ha fatto il presidente di Tim de Puyfontaine.