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March 15 2013
Imbocchiamo la strada contromano e iniziamo dal suo unico detrattore, così ci leviamo il pensiero. Infatti Jean-Paul Sartre detestava Tiziano: "Capricciosi veneziani! Borghesi sconsiderati! Il Tintoretto è il loro pittore: egli mostra loro quello che vedono, quello che sentono: non possono sopportarlo; il Tiziano li prende in giro: lo adorano". Tiziano, secondo il severo esistenzialista, passava il proprio tempo a tranquillizzare il potere, nemmeno si vivesse nel migliore dei mondi possibili. Al che Michel Butor, in un bel match francese, ribatteva: Sartre è ingiusto con Tiziano, "come se non lo avesse mai visto". Il trionfante Tiziano Vecellio (1490-1576), amatissimo dagli antichi, da letterati come Pietro Aretino, artisti come Giorgio Vasari, nobili, papi (Paolo III) e imperatori (Carlo V, Filippo II), e poi ancora di più dai moderni, appartiene alla razza dei geni italiani che fino a tutto il Cinquecento li si chiama per nome (Giotto, Dante, Donatello, Michelangelo, Raffaello, Leonardo) e ciò basta e avanza. Lui è l’ultimo, poi comincia l’età dei cognomi.
Si intitola semplicemente Tiziano la mostra alle Scuderie del Quirinale di Roma (fino al 16 giugno, catalogo Silvana editoriale) e che, nelle intenzioni del suo curatore Giovanni C. F. Villa, con 40 opere indubitabili arrivate da sedi illustri, si presenta come un completo esercizio di ammirazione, in grado di intercettare tutte le fasi e le orbite della fantastica traiettoria tizianesca. Ecco il massimo protagonista dell’arte veneziana mentre si distacca dagli idilli e dalle contemplazioni dei suoi maestri Giovanni Bellini e Giorgione iniettando nelle vene della pittura tali, massicce dosi di naturalezza e forza e movimento che non ci saranno mai più un paesaggio o un nudo di donna (come la Danae di Capodimonte) che nei quadri non ambiranno a essere sensuali spettacoli di verità, nuovi modelli di bellezza.
Tiziano è l’impetuoso che flagella vaste superfici, un intensificatore della realtà che nell’immagine di una persona (qui, l’Uomo con il guanto del Louvre o l’Autoritratto del Prado) intravede una mutevole, irrequieta zona di emozioni. È il pittore cristiano che perfino da Dio trae la plausibile fisicità di un fenomeno naturale. Tiziano da vecchio, perché fu un vecchio da record coi suoi 80 anni nel Cinquecento, avrebbe potuto continuare a essere l’Andy Warhol dei suoi tempi, con la sua avidità, una prodiga bottega, ottime relazioni. E invece all’età in cui, come dice William Shakespeare nel Re Lear, "tutto sta nell’essere maturi", dispettosamente ci squaderna davanti la furia del suo "ultimo stile": una pittura senza consolazione né serenità, macchie disgregate di colore burrascoso, disteso con le dita, in un’anticipazione dei realismi dell’800, e del ’900 più scatenato. Forse è la consapevolezza di una fine imminente che libera in lui energie fosche, la vitalità di una materia cieca, luce e sfacelo non arginabili da una forma. È perfetta la definizione di Theodor Adorno: "Le opere tarde sono catastrofi". Nel grandioso Apollo che scortica Marsia il Tiziano terminale compare come Mida, ed è dalla parte del perdente: malinconico e compassionevole, piange la terribile fine del satiro, punito per la sua ebbra sregolatezza.