Tornano i congressi, torna la politica. Ed è un bene​


A cosa servono oggi i partiti? È una domanda sempre più difficile da rispondere per chi segue la politica italiana.

La scomparsa di Silvio Berlusconi costringe Forza Italia, un partito personale, ad interrogarsi sul proprio futuro: disperdersi oppure cercare di organizzarsi.

Ma l’ex partito del Cavaliere non è una eccezione nel panorama italiano quanto una regola. Perché, ad esempio, il terzo polo non è mai nato come partito unico e oggi Calenda e Renzi sono separati in casa? Perché Giorgia Meloni da capo del governo è ancora capo del proprio partito? Perché il Movimento della democrazia diretta oggi è il partito personale di Giuseppe Conte?

Fondamentalmente perché nessuno nella politica moderna è disposto a intessere compromessi per realizzare una organizzazione con regole e procedure. Ogni politico che riesce in qualcosa si sente leader e oltre la leadership non c’è quasi nulla nella politica italiana. E dunque a tutti loro, i capi, basta la popolarità: non servono regole, congressi, divisioni di ruoli, presenza territoriale. L’unica cosa che conta sono la presenza mediatica, il personaggio e il messaggio. In altre parole nella democrazia del pubblico conta soltanto la leadership e la sua comunicazione. Il leader tuttofare pensa, agisce, comunica, sceglie il personale politico.

Si prenda ad esempio il più antico partito italiano, la Lega Nord, dove Matteo Salvini è da un decennio segretario plenipotenziario con poche possibilità di essere scalzato con meccanismi di democrazia interna. Che ne è dei congressi di partito? Certo resta il Pd, la formazione che più somiglia ad un vecchio partito, ma anche qui siamo di fronte ad un cartello tra correnti che cede non appena ci sono primarie aperte. Schlein ha vinto con l’appoggio di alcune correnti capaci di inventare manovre opportunistiche e con l’entrismo di alcuni gruppi di sinistra.

Ma anche il Pd non ha più una dimensione territoriale: esiste in Toscana ed Emilia, nei centri delle prime città italiane, ma è sparito dalle province e vive una tensione perenne tra governatori e sindaci e direzione nazionale. La ditta è ciò che più somiglia ad un vecchio partito, ma non è anch’esso più assimilabile ad un partito radicato e di massa. Sono anche spariti i partiti-esperimento o single-issue come i radicali o il popolo della famiglia, un segno che anche su quel fronte l’opinione pubblica non è più disposta ad inseguire una sola idea da promuovere nell’agone politico.

Quali fattori pesano in questa trasformazione della politica che ha distrutto i partiti? Senza dubbio la trasformazione mediatica e digitale, i costi di una organizzazione che oggi non sembrano più sostenibili, meccanismi di personalizzazione della politica che sono l’unico viatico per il successo in una politica priva di ideologie forti, una offerta politica pensata sempre più come intrattenimento che come progetto, una certa debolezza decisionale della politica nazionale derivante dal ruolo di supplenza delle istituzioni europee e giudiziarie. In Italia poi tutto questo è aggravato dalla composizione istituzionale del paese: diversi sistemi elettorali per comuni, regioni e politica nazionale; una legge elettorale per le elezioni politiche che incentiva le leadership a riempire di fedelissimi le liste e a catapultarli su territori che non conoscono e dove non sono conosciuti; l’impossibilità per la popolazione di sanzionare partiti e parlamentari nel rapporto tra locale e nazionale. Tutto questo crea un quadro parcellizzato in cui le leadership per emergere devono bucare lo schermo prima e poi consolidarsi con un ruolo di guida assoluta, premiando gli uomini più leali in questa cavalcata.

Naturalmente queste ascese repentine e di gruppo segnalano, una volta al governo, le difficoltà ad aprirsi a personalità esterne al partito: è valso per Renzi e il suo giglio magico, vale oggi per Meloni con i suoi fedelissimi. Infine, questa leaderizzazione assoluta mette a repentaglio la vita dei partiti stessi poiché quando una leadership fallisce rischia di trascinare a fondo partiti che sono fondati soltanto su una personalità.

È difficile che questo scenario in Italia possa cambiare, almeno fino a quando non ci saranno meccanismi elettorali ed istituzionali differenti. Tuttavia, la lungimiranza dei leader - in particolare di quelli che oggi governano - potrebbe far fare uno scatto in avanti al sistema politico italiano: disegnare regole e organizzazione interna, avvalersi di pensatoi e fondazioni, preparare la successione e favorire la competizione interna, coinvolgere quanto più possibile i cittadini per dare legittimità alle istituzioni e ai partiti stessi.

Non c’è fretta, ma sarebbe bene iniziare a prepararsi. I meccanismi e le regole di competizione interna possono sembrare fastidiosi per un leader di successo oppure per un partito che non riesce a immaginare ancora il suo futuro ma che nel lungo periodo possono preservare la vita del partito e l’eredità stessa del leader. C’è vita oltre il leader, ci sono i partiti oltre le tribù parlamentari.

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