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(Ansa)
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Occhio alle «corna»

Essere traditi è una stilettata che lascia, in capo a chi le «corna» le subisce, una lacerazione che, normalmente, si conserva a lungo e taluni non superano mai. E se anche il più famoso tradimento della storia vide come protagonista Elena, moglie di Melenao, rapita dal troiano Paride e che scatenò una guerra senza confini, ancora oggi uomini e donne reagiscono in modo battagliero, esternamente snocciolando epiteti in serie di irripetibile conio, internamente struggendosi e portando quest'affronto con vergogna e disonore. E siccome le ferite del tradimento difficilmente si cicatrizzano, almeno nel breve periodo, non sono pochi coloro che ricorrono al rimedio dell'addebito, chiedendo al giudice della separazione di dichiarare, nero su bianco, che il coniuge adultero sia il responsabile della fine del matrimonio. In tal modo i traditi traggono un momento di benessere nel leggere che " In nome del popolo italiano" il fedifrago indegno sia risultato "colpevole".

L'addebito era un tempo l'unica possibilità di ottenere giustizia anche se i Giudici hanno relegato questa possibilità in termini sempre più marginali, attenuandone l'importanza e spesso ritenendo inaccoglibile la richiesta per motivi più o meno condivisibili. Ma tant'è. La giurisprudenza dei Tribunali però, se da un lato ha tolto, con l'altra mano ha dato uno strumento in più al coniuge tradito, servendogli su un piatto lo strumento dell'azione di risarcimento per danni cosiddetti endo-familiari, laddove si riesca a dimostrare che il comportamento dell'altro in violazione dei doveri coniugali (tra cui la fedeltà) abbia determinato un danno concreto ai diritti personalissimi dell'individuo come la salute, la dignità personale o l'onore.

Ci deve aver creduto quel marito che, evidentemente e per dirla alla "Amici miei", non passava più dalle porte per colpa della condotta dell'ex moglie tanto da chiedere al giudice della separazione sia l'addebito che il risarcimento dei predetti danni endo-familiari.

Sul punto l'ultima ordinanza della Corte di Cassazione pubblicata il 19 novembre 2020 dà torto all'uomo ma afferma un principio importante: legittimo chiedere il risarcimento dei danni per chi abbia subito un tradimento nel corso del matrimonio, anche a prescindere dalla dichiarazione di addebito, ma a due condizioni. La prima è che il danno venga dimostrato e superi la soglia di tollerabilità: nel caso di specie l'uomo aveva effettivamente provato uno stato di afflizione conseguente al tradimento che ne aveva compromesso la salute e la socialità. La seconda, rivelatasi però decisiva per il rigetto del suo ricorso, è che questa depressione sia diretta conseguenza dell'adulterio e non già del fallimento matrimoniale, cosa ben diversa ma di difficile prova. Eh si, perché stabilire che il danno subìto sia il prodotto del solo tradimento o, piuttosto, di tutto un insieme di fattori quali la fine di una relazione coniugale in cui si erano investiti aspettative e la vita stessa? Ai posteri l'ardua sentenza.

Comunque si può prevedere che i traditi si procureranno relazioni medico-legali dove verrà specificato a chiare lettere che il Signor tal dei tali è sì depresso ma non perché è finito il matrimonio, no, ma solo perché cornificato. Fa un po' sorridere, come dire che uno studente rimanga male non già per la bocciatura ma per il modo in cui gli è stata comunicata. O un avventore di un ristorante non già perché la pizza faceva pietà ma perché servita con le posate spaiate. Insomma, un bel pasticciaccio che onera il popolo dei traditi di prove diaboliche di difficile ricostruzione e manda sempre più spesso esenti coloro che pensano di potersi permettere la qualunque in uno Stato forte coi deboli e debole coi forti.

Cornuti e mazziati, è proprio il caso di dire.

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