Superga, 4 maggio 1949: storia dell'ultimo volo del Grande Torino

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Costruito nel 1947, il Fiat g.212 I-ELCE era pilotato dal veterano di guerra Capitano Meroni
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Il Grande Torino noleggiò il G.212 dalla ALI (Avio Linee Italiane) di proprietà della Fiat
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La formazione del Grande Torino morta nella tragedia del 1949: Castigliano, Ballarin, Rigamonti, Loik, Maroso, Mazzola, Bacicalupo, Menti, Ossola, Martelli, Gabetto
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L'ultima partita del Grande Torino a Lisbona contro il Benfica. 3 maggio 1949
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La scena della tragedia di Superga. La poppa dell'I-ELCE contro il muro di cinta della Basilica di Superga
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La basilica di Superga. l'aereo del Grande Torino impattò nella zona del terrapieno in basso a destra
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La poppa del G.212 conservata a Torino
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Una cerimonia di commemorazione davanti la stele in ricordo del "grande Torino" dopo la tragedia di Superga.
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La prima cerimonia a pochi giorni dalla tragedia del 4 maggio 1949

La storia e la vita dei giocatori del Grande Torino si infrangevano alle ore 17:05 del 4 maggio 1949 contro un terrapieno del lato orientale della Basilica di Superga, sulla cima della collina che sovrasta Torino. L'aereo che li stava riportando a casa dopo la trasferta di Lisbona si era schiantato contro il muro avvolto in quel momento da una fittissima coltre di nebbia e pioggia battente. La squadra più ammirata in Italia ed In Europa, orgoglio del paese che faticosamente si stava scrollando di dosso le macerie della guerra, compresi allenatore, massaggiatori e dirigenza tecnica oltre a tre giornalisti e l'equipaggio. I morti sul colpo sono 31. Ricostruiamo, con l'aiuto delle cronache e delle testimonianze dell'epoca, la storia di quel volo maledetto di 70 anni fa.

Aeroporto di Lisbona: ore 9:52 del 4 maggio 1949

Il Grande Torino si trovava in trasferta a Lisbona dove aveva disputato una partita amichevole contro il Benfica con l'obiettivo di raccogliere fondi per la squadra lusitana in gravi difficoltà economiche. Il volo di ritorno era previsto nella mattinata del 4 maggio 1949 dall'aeroporto della capitale portoghese. Sulla pista li attendeva l'aereo noleggiato dai granata alla ALI (Avio Linee Italiane) allora di proprietà della Fiat, che possedeva anche la gestione del vecchio scalo di Torino-Aeritalia. Costruito dal colosso piemontese era anche il velivolo, un trimotore Fiat G.212 seminuovo (era stato consegnato nel 1947) ed immatricolato con le marche I-ELCE. Pilotava l'aereo il Comandante Pierluigi Meroni, un veterano della Regia Aeronautica che si era meritato la Medaglia d'Argento nel 1941 pilotando bombardieri del tutto simili al trimotore di linea che avrebbe dovuto riportare i campioni in Italia. Sui sedili presero posto idoli del calcio italiano Valentino Mazzola, Guglielmo Gabetto, i fratelli Ballarin, Valerio Bagicalupo, Ezio Loik, Mario Rigamonti e lo staff tecnico con il direttore tecnico Egri Erbstein e l'allenatore Leslie Lievesley.

Alle 9:52, in perfetto orario, le grandi ruote del G.212 staccavano dalla pista scomparendo nelle gondole motore. Il carrello toccherà di nuovo terra a Barcellona per le operazioni di rifornimento carburante. I giocatori granata scendono a terra ed incrociano i giocatori del Milan, a loro volta diretti a Madrid per un'amichevole. Saranno gli ultimi a vedere i campioni d'Italia in vita. Erano le 13:15.

Poco dopo le 14:00, rifornito di carburante, il G.212 decollava nuovamente per la tratta finale con destinazione Torino-Aeritalia. Il volo procedette senza intoppi sopra la costa meridionale della Francia fino al VOR di Savona, dove I-ELCE richiedeva l'attivazione del radiofaro di Novi Ligure per impostare la rotta magnetica di approccio nella fase finale del volo. Il tempo sopra la Liguria non era ottimale, ma neppure pessimo. Tuttavia le condizioni meteo in direzione della pista di Torino erano in rapido peggioramento, situazione che fece decidere all'equipaggio di abbassarsi fino all'altitudine di 2.000 metri, dove per l'ultima volta dai finestrini fu possibile vedere il terreno prima che questo scomparisse nascosto dalla fitta coltre nuvolosa.

Gli ultimi minuti di volo e la tragedia

A circa 15-20 minuti stimati dalla pista di Torino l'equipaggio del trimotore richiedeva nuovamente il rilevamento geometrico ai radiofari di Novi e Savona. Scosso dal vento di libeccio e sferzato dalla pioggia battente, I-ELCE entrato in volo strumentale ricontattava Torino alle 16:55 per avere nuovamente il bollettino meteo. Rispondeva la torre: "Torino: calma, visibilità 1.200 metri. Tempo presente pioggia continua, tempo passato pioggia. Nubi basse 8/8 strati e fractostrati limite 480 metri. In tutte le direzioni sopra le montagne, invisibile stazionario. Superga: cielo invisibile. Vento nord 10 nodi, visibilità 40 metri: tempo presente pioggia continua, tempo passato pioggia: in tutte le direzioniinvisibile verso il basso."

Condizioni dunque difficilissime per un approccio in sicurezza alla pista. Normalmente, ed in particolare all'epoca dei fatti quando la radionavigazione non disponeva di strumenti tecnologicamente avanzati, si sarebbe optato per quello che in gergo aeronautico è chiamato QCO, ossia la deviazione del volo verso uno scalo più sicuro, in questo caso Malpensa o Linate. Ma l'ordine da Torino non arriverà mai, mentre la prua del G.212 puntava inconsapevolmente contro il colle di Superga nascosto dal manto di nubi. Alle 17:02 l'equipaggio chiamava per l'ultima volta la torre di Torino, per avere conferma dell'angolo di approccio alla pista, confermato a 285°. Dopo i saluti del Comandante e del marconista, il silenzio. Erano le 17:05 e la tragedia si era consumata in una frazione di secondo contro il muro di cinta della basilica di Superga.

La testimonianza dall'interno della Basilica di Superga

Don Tancredi Ricca era il cappellano della basilica di Superga. Poco prima delle 17 del 4 maggio 1949 si trovava nel suo studio con lo sguardo alla finestra oscurata dalla pioggia battente e dalla fitta nebbia. Fu allora che udì il rombo di un aereo in avvicinamento, al quale non fece caso più di tanto perché la basilica progettata dallo Juvarra era un punto di riferimento per gli aerei diretti su Torino. Pochi istanti dopo però, il fragore dei tre motori a pistoni si fece assordante e fu seguito pochi istanti dopo da un'esplosione che fece tremare i pavimenti di marmo. Poi un silenzio irreale, rotto di nuovo solamente dal battere della pioggia. Don Ricca non fece in tempo neppure a lasciare la sua stanza che udì una voce squarciare il silenzio: "E'caduto un aereo!", sentì qualcuno urlare dal basso.

Quando uscì nella nebbia scoprì la tragedia. Le fiamme ancora vive avvolgevano i rottami dell'aereo che accompagnava i campionissimi granata, sparsi tra il muro di cinta di Superga e il terrapieno contro il quale era avvenuto l'impatto fatale. Solo la parte di poppa della fusoliera e gli impennaggi di coda erano rimasti quasi intatti, appoggiati sinistramente allo spesso muro di cinta. Dalle ricostruzioni successive delle Autorità si comprese la dinamica dell'incidente. Il trimotore, in volo strumentale a visibilità zero, impattava il terreno a 4 metri dal terrapieno con la semiala sinistra, che si staccava di netto. Imbardando improvvisamente a destra, anche l'altra ala colpiva il terrapieno generando l'incendio mentre in una frazione di secondo (alla velocità di circa 180 km/h e con la prua in cabrata a causa dell'impatto) la fusoliera colpiva il muro di cinta della basilica, disintegrandosi. La cabina di pilotaggio con i suoi occupanti sfondò un portone e penetrò all'interno della basilica, in una delle stanze attigue ad un lungo corridoio. Il motorecentrale finì al secondo piano e quindi, sfondato il pavimento, ricadde nella stessa stanza dove saranno ritrovati i corpi di Meroni e del co-pilota Cesare Biancardi.

Quando le fiamme cominciarono ad affievolirsi, i primi soccorritori giunti sul posto assieme a don Ricca si accorsero della gravità dell'incidente. I passeggeri, i campioni granata e i loro accompagnatori erano ammucchiati in un'area di appena 2 metri quadrati a causa della violenza dell'impatto, mentre i loro bagagli furono ritrovati quasi intatti nell'orto sottostante protetti dalla poppa rimasta quasi integra.

Le ipotesi sulla sciagura che sconvolse gli Italiani

Le prime ipotesi sulle cause della tragedia di Superga spaziarono dalla scarsa preparazione dell'equipaggio al volo strumentale (contraddetta dalla nota e certificata abilità del Comandante Meroni nel "volo cieco"), quindi da un possibile guasto o errore della rilevazione altimetrica durante l'ultima fase del volo. Anche quest'ultima possibilità sarà contestata dal fatto che il Fiat G.212 era dotato di più altimetri (pilota, co-pilota e marconista) e che un guasto simultaneo a tutti gli indicatori di quota sarebbe stato statisticamente improbabile. Dal recupero degli strumenti dopo l'impatto fu chiaro che anche la taratura degli stessi era risultata corretta nei parametri impostati con le indicazioni da terra sulla pressione atmosferica.

Il volo da Lisbona a Torino era un volo "charter", ossia concordato direttamente tra il Torino FC e la compagnia aerea. In seguito al disastro un'ipotetica ragione per la quale fu scelto di non dirottare il volo su Milano nonostante il meteo proibitivo avrebbe potuto essere individuata nelle possibili pressioni sull'equipaggio da parte dei dirigenti della società che avrebbero richiesto con insistenza di atterrare direttamente a Torino dato che la squadra era stanca in seguito ai tanti impegni dei giorni precedenti.

Ma l'ipotesi forse più accreditata sembra oggi risiedere nei limiti della strumentazione di bordo e di terra disponibili all'aviazione civile di 70 anni fa. A causa dell'approssimazione della navigazione strumentale e della mancanza di standardizzazione nelle comunicazioni tra la torre e il velivolo, si sarebbe creato un lieve errore di rotta e altitudine (in termini di pochi secondi o poche decine di metri) che avrebbe portato il G.212 in rotta di collisione con la basilica. Bisogna tenere conto che all'epoca del volo fatale il trimotore non era dotato né di radioaltimetro e neppure del radar orizzontale, che avrebbe potuto avvisare in tempo utile l'equipaggio della presenza dell'ostacolo in rapido avvicinamento. Da considerare, secondo gli esperti, anche l'azione del forte vento di libeccio che soffiava sulle alture di Torino e che avrebbe potuto spostare di qualche grado l'angolo di approccio di I-ELCE alla pista, distante appena 9 chilometri in linea d'aria dal punto dell'impatto.

Un errore umano dunque, molto probabilmente causato inconsapevolmente per la ridotta sicurezza nel volo strumentale di quegli anni oppure per una errata interpretazione delle carte nel momento in cui la vista del terreno scomparì agli occhi dell'equipaggio. E da quelli dei giocatori del Grande Torino, inconsapevoli del loro tragico destino per tutta la durata di quel volo che riporterà l'Italia nel lutto che sembrava svanito con la fine della guerra.

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