Inchieste
March 19 2023
Tornare indietro non si può e non è politically correct: è per questo che si discute ancora troppo poco della «detransizione», fenomeno - o meglio, tabù - che riguarda chi ha cambiato sesso e poi si è pentito. I segnali che stanno arrivando da Inghilterra e Stati Uniti indicano però una chiara inversione di tendenza: il governo britannico ha chiuso il Gender identity development service (Gids) della clinica Tavistock, tempio della psicoanalisi infantile e unico ospedale pubblico del Regno Unito dedicato alla disforia di genere dei minori. In seguito a un rapporto che ha riscontrato «forti criticità», il sospetto è che il Gids incoraggi i trattamenti con troppa disinvoltura. Stessa imputazione pende sul Transgender Center della Washington University (Usa) su cui il Procuratore generale del Missouri ha aperto un’inchiesta. Le testimonianze riferiscono una totale anarchia terapeutica, assenza di protocolli formali e accanimento nei confronti dei «detransitioners», isolati come reietti. Anche in Europa, la preoccupazione che troppi bambini possano essere messi inutilmente a rischio ha spinto nazioni come Finlandia e Svezia (primo al mondo ad autorizzare la transizione a spese dello Stato, nel 1972) a limitare l’accesso alle cure. Unica a non fare marcia indietro, al momento, è la Spagna.
Per capire l’importanza del fenomeno della detransizione, bisogna partire dalla transizione. Le cliniche pediatriche di genere negli Usa sono passate da zero a più di 100 negli ultimi 15 anni. Secondo uno studio della società Komodo Health Inc, i bambini e adolescenti americani tra 6 e 17 anni che hanno iniziato ad assumere ormoni o bloccanti della pubertà dal 2017 al 2021 sono più che raddoppiati, senza considerare quelli che affrontano l’intervento chirurgico. Perché negli Usa la domanda sia esplosa, a dispetto della scarse conferme su sicurezza ed efficacia a lungo termine dei farmaci e l’assenza di approvazione della Fda, non è difficile immaginarlo. Innanzitutto, la gender industry fattura sempre di più - nel 2022 solo per la chirurgia il giro d’affari è stato di 623 milioni di dollari, dati Global Market Insight - e non ha bisogno dell’approvazione di Fda («costosa e politicizzata», secondo i maggiori produttori Endo e AbbVie). E poi perché la transizione è tema politico caldo e divisivo, non a caso le richieste si concentrano soprattutto negli Stati governati dai Democratici.
Il fenomeno ha subìto un’impennata dopo le facilitazioni concesse dall’amministrazione Obama nel 2016. Da allora, la copertura assicurativa pubblica e privata si è estesa a macchia d’olio. Oggi il cambio di sesso è garantito in diversi Stati anche alle famiglie a basso reddito attraverso il programma Medicaid. Non sono ancora definitivi, invece, i dati sulle detransizioni, ma è certo che siano in aumento. Lo studio più recente, condotto dal Dipartimento della Difesa e pubblicato a maggio 2022, segnala che oltre il 25 per cento dei pazienti che ha iniziato il percorso per cambiare sesso prima dei 18 anni ha smesso di assumere i farmaci. Gli studi che registrano le detransizioni hanno invece più limiti, in particolare il fatto di compiere queste analisi subito dopo la transizione, quando gli effetti devono ancora manifestarsi.
Sulle cause del fenomeno hanno investigato Kinnon MacKinnon, professore transgender alla York University, e la psichiatra americana Lisa Littman. Ciò che hanno scoperto spiega perché il tema della detransizione sia un tabù: secondo Laura Edwards-Leeper, psicologa clinica nell’Oregon (intervistata da Reuters) i medici sono terrorizzati dall’esito di queste ricerche. I motivi del pentimento di chi cambia genere sembrano riconducibili a due «peccati originali» della transizione: scarsa sicurezza dei trattamenti e diagnosi affrettate per la disforia di genere: queste ultime, necessarie per accedere ai trattamenti, sono cresciute dalle 15.172 del 2017 alle 42.167 del 2021. Molti disagi adolescenziali, sociali o psicologici, finiscono nel calderone della disforia di genere, in cui vengono fatti rientrare anche i gender-fluid e i non binari, generando numerosi «falsi positivi». Secondo Rachel Levine, alto funzionario transgender al ministero della Salute nell’amministrazione Biden, «le cliniche stanno procedendo con cautela», ma non è esattamente così: i detransitioners confermano forti pressioni e poco «consenso informato» anche nelle strutture pubbliche.
Spesso i professionisti del gender-care paventano il rischio di suicidio per indurre i genitori al consenso. Anche in Italia, sette società scientifiche insieme con la Società italiana di pediatria hanno menzionato il «pericolo di suicidio e depressione» per contestare le riserve espresse dalla Società psicoanalitica italiana (Spi) sul rischio di danni fisici e psichici dei farmaci che bloccano la pubertà, definendole «infondate e ingiustificatamente allarmistiche».
È davvero così? Non si direbbe: tra il 2013 e il 2019 la Fda ha registrato 41.213 eventi avversi e 25.645 reazioni «gravi» in piccoli pazienti che avevano assunto il bloccante ormonale Lupron. Le segnalazioni su altri farmaci parlano di comportamenti suicidari, autolesionistici o depressivi. Uno studio della California ha scoperto che il 25 per cento degli 869 pazienti con vaginoplastica è stato ricoverato, e ri-operato, per emorragie o lesioni intestinali. Le femmine soffrono spesso di atrofia vaginale, causata dal testosterone. Altro effetto è il calo della densità ossea. All’assenza di protocolli di trattamento ex-post si aggiunge lo stigma sociale: molti detransitioners hanno denunciato una perdita di sostegno da parte della comunità Lgbtq+, esperienze deludenti con i medici e isolamento. Negli Usa il percorso di cambiamento di sesso viene chiamato «modello affermativo» (l’idea è che sia il ragazzo o la ragazza a poter decidere il proprio sesso). Ma appare in realtà negativo e fonte di profonde solitudini.