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Trattativa Stato-Mafia: tutti condannati tranne Nicola Mancino

Ci fu veramente la “Trattativa” tra Stato e Cosa nostra? Dopo cinque anni di processo, arriva una risposta, per quanto provvisoria. E la risposta è , almeno secondo i giudici della seconda sezione della Corte d’assise di Palermo. Quei giudici, riuniti in camera di consiglio da lunedì 16 aprile, hanno pronunciato il verdetto di primo grado nell’aula-bunker del carcere Pagliarelli, nella periferia a sud-ovest della città: la stessa aula sorda e beige dove per oltre cinque anni, inanellando 212 udienze e intrecciando migliaia di ore nell’ascolto di oltre 200 testimoni (tra i quali, nell’ottobre 2014, l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano), si è celebrato uno dei procedimenti penali più difficili, complicati e controversi nella storia d’Italia.

Sempre per la prima volta nella storia, del resto, con l’inchiesta sulla “Trattativa Stato-mafia” la Procura di Palermo ha messo insieme sul banco degli imputati capi mafiosi, alti ufficiali delle forze dell’ordine e uomini delle istituzioni. Attraverso di loro, la Procura ha voluto a tutti i costi processare il “patto illecito” che sarebbe stato ordito nel 1992-93 da pezzi delle istituzioni con i vertici di Cosa nostra, uniti in un inconfessabile scambio: l’organizzazione criminale avrebbe dovuto interrompere la stagione delle stragi (Capaci, Palermo, Firenze, Milano…) in cambio di un allentamento del regime carcerario duro riservato ai boss mafiosi.

La Corte d’assise palermitana, presieduta da Alfredo Montalto, ha deciso oggi che quell’accusa avesse un fondamento e per questo ha condannato sette imputati su otto. L’unico assolto è l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, che era stato accusato di falsa testimonianza.

Per il reato di minaccia e violenza a un corpo politico dello Stato, invece, la Corte ha inflitto 28 anni di reclusione al boss Leoluca Bagarella; 12 anni ad Antonino Cinà, il medico del boss Totò Riina; 12 anni all'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri (già in carcere perché condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa). Sono dure anche le condanne inflitte all’ex capo del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri Antonio Subranni (12 anni), al suo vice del tempo Mario Mori (12 anni) e all’allora capitano Giuseppe De Donno (otto anni). Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, è stato condannato infine a otto anni di reclusione per calunnia.

Gli inizi

Tutto era cominciato nel 2008-2009. L’inchiesta sulla “Trattativa” era nata allora, con il diverso nome in codice “Sistemi criminali”, per iniziativa del pubblico ministero palermitano Antonio Ingroia (poi dedicatosi alla politica con fortuna inversamente proporzionale all’intensità degli ideali). A dare il via all’inchiesta di Ingroia era stato proprio uno degli imputati del processo sulla “Trattativa”: Massimo Ciancimino, sedicente depositario delle “verità” che negli ultimi 30 anni si sarebbero accumulate nei rapporti tra mafia, politica e servizi segreti.

Ciancimino jr aveva rivelato anche l’esistenza di un documento scritto, il cosiddetto “papello” vergato da suo padre, contenente i termini dell’accordo. Di quel documento, contestato dai periti delle difese, non è però mai stata fornita una versione originale ma soltanto fotocopie.

Teste controverso e più volte screditato, Massimo Ciancimino è poi paradossalmente entrato nel processo sulla “Trattativa” cui lui stesso ha contribuito perché accusato di avere calunniato l’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro. Per lo stesso reato di calunnia, peraltro, Ciancimino è già stato condannato (in primo grado) per ben tre volte a Palermo, Bologna e Caltanissetta.

E attualmente è in carcere perché condannato per concorso in associazione mafiosa, per riciclaggio di denaro e per detenzione d’esplosivo.

Contro le tesi di Ingroia e dei suoi successori, per tutti questi anni gli avvocati degli imputati e i critici dell’inchiesta sulla “Trattativa” hanno sempre sottolineato il carattere ideologico-politico dell’inchiesta, e criticato l’inconsistenza e l’inverosimiglianza delle accuse. Alcuni grandi giuristi e tecnici del diritto penale, come Giovanni Fiandaca, ne hanno addirittura contestato le stesse fondamenta giuridiche, sostenendo che la politica aveva e ha il pieno diritto costituzionale d’intervenire in ogni materia, anche per cercare di fermare le stragi di mafia.

Le richieste

Lo scorso 26 gennaio i quattro pubblici ministeri Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia avevano concluso le loro requisitorie presentando alla Corte queste richieste di pena per gli otto imputati: 12 anni per i mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, e altrettanti per Marcello Dell’Utri (già in carcere perché condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa). I pm avevano chiesto sei anni per l’ex ministro Nicola Mancino e avevano stabilito invece il “non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato” nei confronti del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, e la Corte d’assise ne ha convenuto.

Per Antonio Subranni e per l’allora capitano Giuseppe De Donno la Procura aveva chiesto 12 anni, mentre ne aveva domandati 15 per Mario Mori. Per la calunnia attribuita a Massimo Ciancimino, infine, la Procura aveva chiesto 5 anni.

Il procuratore aggiunto Teresi aveva concluso così la requisitoria: “Noi siamo convinti che tutte le tessere che abbiamo ricostruito e abbiamo offerto, dagli anni Settanta fino alla metà degli anni Novanta, si incastrino in un quadro d’insieme che ha a che fare con i reati contestati. Un quadro nel quale qualche tessera è sporca del sangue delle vittime di quelle stragi. Possiamo dire che la strage di Capaci è una strage consumata per vendetta e per fermare quella grande evoluzione normativa che Giovanni Falcone aveva impresso dal ministero della Giustizia...“.

Nel processo, il cui svolgimento in aula era cominciato il 7 marzo 2013, gli imputati inizialmente erano 11. In questi ultimi cinque anni, però, i due boss Totò Riina e Bernardo Provenzano sono morti in carcere, da ergastolani. L’undicesimo imputato, l'ex ministro democristiano Calogero Mannino, l’unico ad avere scelto il rito abbreviato, è invece stato assolto il 4 novembre  2015 dall'accusa di violenza e minaccia a corpo politico dello Stato "per non aver commesso il fatto": per lui, all’epoca, la Procura di Palermo aveva chiesto nove anni di reclusione. Nel suo caso, inutilmente. E anche questa incongruenza, probabilmente, peserà sull’inevitabile giudizio d’appello.

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