​medici specialisti
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Scienza

Ci sono troppi medici specialisti

C‘è il neurologo che pensa solo al cervello, mentre il gastroenterologo ritiene che su ogni organo comandi l’intestino. Il cardiologo? Beh, lui si sente Dio: pretende che tutti gli riconoscano il suo ruolo. Intanto la Medicina interna, regina di tutte le specialità, creata alla fine del diciannovesimo secolo da medici europei e statunitensi che cominciarono a integrare il metodo scientifico con le conoscenze cliniche, sempre più spesso viene relegata in un angolo: nel ruolo del reparto dove mandare i troppo anziani, o i troppo malati, o i troppo «difficili», insomma quei pazienti che chissà cos’hanno, o chissà se ce la fanno.

Grave errore: perché in questi tempi di iperspecializzazione medica, spesso un sistema di «silos» che non dialogano fra loro, in mezzo ci siamo noi, in balìa di un metodo che ci osserva frammentati e non più nella nostra globalità. A rilanciare il problema nella comunità scientifica internazionale è stata la recente pubblicazione, sullo European Journal of Internal Medicine, di un articolo dal titolo Medicina interna nel XXI secolo: ritorno al futuro, che analizza il ruolo dell’internista oggi: i quattro autori, tra cui Nicola Montano, direttore della Medicina interna-Immunologia e Allergologia dell’Ospedale Policlinico di Milano, si interrogano su come i sistemi sanitari possano affrontare le sfide del domani, e come il ruolo dello specialista internista possa essere la chiave di volta. Perché il malato, è la riflessione, è sempre intero e non mero elenco di organi. E se è vero che, come diceva già alla fine Ottocento il canadese William Osler, padre della medicina moderna, «il buon medico cura la malattia; il grande medico cura il paziente» allora stiamo sbagliando qualcosa.

«Concentrarsi su un dettaglio porta inevitabilmente a perdere di vista l’insieme» conferma a Panorama il professor Montano. «Questo capita in tutti i campi, ma particolarmente in medicina. Davanti a una popolazione che invecchia e che soffre di molte patologie, un approccio ultra specialistico non è più sostenibile. Il medico internista deve saper fare il salto di qualità e assumere il ruolo di direttore d’orchestra: non solo fare diagnosi, ma occuparsi del paziente in maniera olistica, uniformare le terapie e studiare assieme agli specialisti “d’organo” tutte le strategie di intervento». Anche perché viviamo in una società iper-medicalizzata, nella quale tra ipertensione, diabete, malattie cardiache e altro, rischiamo di trovarci già a 65/70 anni ad assumere più di 10 pillole al giorno: prescritte da specialisti diversi, che però non si parlano tra loro e non fanno il punto sulla persona. «Occorre invece» continua Montano, che è anche presidente eletto della Società italiana di Medicina interna, «iniziare una politica di de-prescribing: farsi carico dei pazienti complessi, degli anziani polipatologici, e cominciare a scalare e togliere farmaci inutili o dannosi nelle loro interazioni. Passare da una società iper-medicalizzata qual è quella attuale per andare verso una maggiore sostenibilità delle cure: innanzitutto per la sicurezza del paziente, e poi anche per la tenuta del servizio sanitario».

Alla fine, ciò che serve di più è il buon medico che deduce, visita, diagnostica e segue i malati. Tenendo conto di tutto: «L’approccio di uno specialista internista con il proprio paziente» spiega Alberto Benetti, direttore di Medicina interna-Alta complessità dell’Ospedale Niguarda di Milano, «non si limita ad affrontare la singola patologia; valutiamo il malato nelle sue dinamiche familiari, sociali e umane. Nel decidere un percorso di cura teniamo in considerazione l’insieme: i caregiver, la famiglia, il contesto di cura e anche il delicato rapporto con i medici di base, del quale dobbiamo essere interlocutori privilegiati. Tutti questi aspetti condizionano le nostre scelte di cura, ogni giorno». Inoltre, proprio come accade nelle serie tv Dottor House e Doc, gli internisti sono quelli che si portano a casa il lavoro, non si arrendono davanti a una mancata diagnosi e riescono a scoprire malattie che altri specialisti spesso nemmeno sospettano. Non per nulla, negli Stati Uniti sta prendendo piede la professionalità dell’hospitalist, medico ospedaliero internista che programma le cure, decide quali consulenze attivare e si fa carico di armonizzare esami e terapie, seguendo il malato dall’ingresso in corsia fino alla dimissione. «Anche in Italia ci si sta indirizzando a un approccio analogo, seppure, per ora, solo in pochi centri» conclude Benetti. «Con queste figure i benefici per i pazienti e per tutti i professionisti sarebbero significativi. Del resto, la medicina interna è la madre di tutte le specialità ospedaliere, e in questa fase sta recuperando un ruolo di primo piano».

Tutto ciò serve anche al miglior funzionamento dei Pronto soccorso (dove la maggioranza dei primari è un internista), perché sono proprio i pochi posti letto dedicati alla Medicina interna a mandare in affanno i reparti di Emergenza, costretti al «boarding», ossia a sistemare per giorni, spesso in letti precari, pazienti cronici e anziani che non trovano accoglienza in altri reparti, fosse solo perché complicati da gestire. Ma per farlo, occorrono risorse: spazio, medici e posti letto: «Dobbiano abbandonare l’assetto organizzativo verticale, a “silos” divisi per discipline, che caratterizza la maggior parte dei nostri ospedali» sostiene Massimo Geraci, primario del Pronto soccorso del Civico di Palermo, il più grande nosocomio del Sud Italia dopo Napoli. «La concentrazione degli interventi su una singola malattia crea percorsi assistenziali paralleli e poco integrati che, oltre a mandare in affanno i reparti di emergenza e urgenza, mal si adattano ai pazienti di oggi, con il loro carico di cronicità e complessità. Non è un problema di preferenze o di prevalenza di una disciplina rispetto a un’altra, ma di una prospettiva che ponga al centro il malato e non la malattia».

Basta allora tornare alla «semplicità» delle origini, per risolvere la complessità dell’oggi? Forse è questa la chiave di lettura, e del resto è proprio la storia che ci mostra la strada verso un ritorno al futuro che possa essere sicuro per tutti: «La medicina interna» conclude Montano «ha stabilito i tre pilastri della medicina moderna: pratica clinica, ricerca e formazione. Abbiamo le conoscenze e le capacità per far funzionare le cose al meglio e per prenderci cura di chi sta male secondo scienza e sostenibilità: dobbiamo solo metterle in pratica, ogni giorno in ospedale». E mentre gli specialisti continueranno a guardare, studiare e analizzare i loro organi preferiti (e meno male che lo fanno) speriamo che di fianco al nostro letto ci sia anche e soprattutto un internista, che guarda, studia e analizza noi, facendo del suo meglio per guarirci. Tutti interi.

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