Quella truffa dei sacchetti Bio (ma di plastica)
«Ma le buste di cui state parlando, lo sapete che sono illegali?». Inizia così, da un basso nel cuore dei quartieri spagnoli, centro storico di Napoli, la nostra inchiesta sulle shopper, qui prosaicamente definite ’e buste. A farci questa domanda è Nino C., 65 anni, commerciante pluripregiudicato che ha abdicato al traffico di cocaina per quello, parecchio remunerativo e decisamente a basso rischio, dei sacchetti di plastica.
Per capire però questa storia - che riguarda tutti quanti, e che riaffiora solo per i numerosi blitz che punteggiano la cronaca - bisogna fare un duplice passo indietro. Il primo è nel 2007 quando con la finanziaria (296/2006) viene introdotto il divieto di commercializzare sacchetti non biodegradabili, cosa che poi avverrà dal 1° gennaio 2011. Il secondo nel novembre 2016, quando anche l’Italia recepisce la Direttiva Ue 2015/720 sulle borse in plastica, e la traduce in legge. Il fine è quello di azzerare la distribuzione di sacchetti di plastica inquinante, scoraggiandone l’utilizzo sia fra i commercianti sia tra i consumatori, anche per alimenti sfusi (i sacchetti di frutta e verdura, insomma). La reazione degli italiani all’epoca fu di protesta, con uno sdegno crescente che prometteva di boicottare supermercati e negozi, inneggiando a una rivoluzione dei consumi; naturalmente, dopo due mesi tutti avevano dimenticato la faccenda. All’epoca lo snodo della questione fu subito comprensibile quando la normativa venne messa a punto, e la vicenda analizzata secondo la prassi tipicamente italica de «fatta la legge, trovato l’inganno».
Se inizialmente il problema fu aggirato attraverso la possibilità di smaltire gli stock in dote ai commercianti - che poco prima dell’ufficializzazione avevano fatto scorte a prezzi irrisori -, la questione con gli anni si è fatta più complessa tanto da aver richiesto un recente intervento del ministero dell’Ambiente (risposta a interpello 3 ottobre 2024, n. 180065) che ha decretato come oggi a essere punita dalla legge è esclusivamente l’effettiva messa a disposizione della clientela dei sacchetti di plastica monouso non biodegradabili e compostabili, ma non la mera detenzione degli stessi da parte dei venditori. Insomma: il commerciante può possedere il sacchetto non a norma, basta che non lo utilizzi. A rispettare la legge per non incappare in multe che arrivano fino a 25 mila euro - secondo il ministero - sono tenuti non solo i distributori all’ingrosso e i negozianti, finali utilizzatori dei sacchetti, ma anche chi produce gli shopper e li cede a questi soggetti.
Per mettere fine al proliferare di irregolarità, anche i cittadini negli anni sono stati invitati a fare le loro segnalazioni - basta utilizzare il sito www.biorepack.org - e non di rado le sospette violazioni si sono tradotte in inchieste, tanto che negli ultimi mesi i blitz si sono moltiplicati nel nostro Paese, concentrandosi soprattutto a Napoli dove le forze dell’ordine compiono ciclicamente sequestri di articoli illegali.
Secondo una stima, nel capoluogo campano ogni tre giorni si sequestrano circa 100 chili di buste illegali. Una cifra da capogiro che dal 2017 ha alimentato 76 operazioni delle forze dell’ordine, che hanno portato al sequestro di circa 8,6 milioni di shopper illegali, pari a circa 170 tonnellate, per un totale di mezzo milione di euro di sanzioni e cinque denunce per frode in commercio. Stando alle recenti analisi portate avanti da Biorepack - il primo sistema europeo di responsabilità estesa del produttore (EPR) dedicato agli imballaggi di plastica biodegradabile e compostabile - si tratta di un giro d’affari compreso fra gli 85 e i 100 milioni di euro. Perché, per quanto siano vietate da anni e anni, le buste in plastica continuano a essere ancora molto diffuse.
A conferma, i dati della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, secondo cui circa il 40 per cento degli shopper immessi sul mercato non è a norma. La provenienza della merce sarebbe l’Oriente - in particolare la Cina - ma anche manifatture locali, che operano non seguendo i requisiti stabiliti per legge al fine di produrre con costi decisamente inferiori a quelli necessari per rispettare le norme.
A spiegarlo chiaramente è Nino C., il citato venditore all’ingrosso di buste illegali. Calcolatrice alla mano, Nino si improvvisa ragioniere: «I sacchetti si comprano al chilo. Un chilo di sacchetti biodegradabili e computabili al 100 per cento costa in media otto euro. Considerando che una busta pesa circa 9 grammi, si arriva a un costo per ogni articolo di 7,2 centesimi. Io faccio pagare un chilo di sacchetti tre euro e sopra ci metto anche i loghi che servono per legge, secondo voi da chi vanno i commercianti?».
Così, e purtroppo, la questione ambientale resta solo a margine del problema. I sacchetti illegali tanto ambiti dai commercianti sono realizzati con polimeri non biodegradabili e non compostabili, che hanno conseguenze che si possono documentare. Un esempio? Se utilizzati per i rifiuti umidi oltre al rischio rilascio di sostanze dannose, causano difficoltà di gestione e un aumento dei costi di trattamento per gli impianti di compostaggio. Parlando più in generale: un materiale biodegradabile - secondo la normativa europea - si deve decomporre del 90 per cento entro sei mesi. Quanto impiega quello in plastica? «Soltanto» dai 10 ai 20 anni.
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