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July 24 2017
Lo scontro fra i media e Donald Trump sale ancora d’intensità. Le dimissioni del portavoce Sean Spicer e il tweet del Presidente contro il New York Times e il Washington Post sono gli ultimi episodi di un conflitto ormai insanabile.
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It's hard to read the Failing New York Times or the Amazon Washington Post because every story/opinion, even if should be positive, is bad!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 23 luglio 2017
Insanabile e al limite del tormentone, se non fosse che in realtà il duello nasconde risvolti densi di significato. Sì è giustamente scritto che Spicer si è dimesso in dissenso alla nomina di Anthony Scaramucci, un finanziere che di media sa poco o nulla, a capo della Comunicazione della Casa Bianca. Vero. Ma c’è dell’altro.
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Per capirlo forse bisogna tornare a meno di un mese fa, quando la CNN pubblica la notizia del coinvolgimento di un membro dello staff di transizione di Trump con fondi finanziari russi per affari da milioni di dollari. Grande titolo e link relativi. La notizia però si rivela imprecisa, l’inchiesta fa acqua.
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CNN è costretta a rimuoverla dal sito, a licenziare i tre importanti giornalisti che l’hanno firmata (tra i quali il capo dell’unità investigativa di Atlanta e il Premio Pulitzer Eric Lichtblau) e a scusarsi pubblicamente col collaboratore di Trump ingiustamente accusato. Il suo nome? Ma semplice: Anthony Scaramucci.
Il quale da parte sua accetta con fair play le scuse del network e la cosa finisce lì. Zero strascichi, niente carta bollata. Ma a questo punto chi ancora pensa che Trump sia impulsivo ci ripensi. Perché la cosa non finisce affatto lì. E’ forse un caso se un mese dopo Scaramucci – la vittima della CNN, colui che ha addirittura graziato il suo carnefice mediatico (Scaramucci è avvocato, laurea ad Harvard) – va al comando della Comunicazione? A pensarci bene: quale miglior occasione per Trump di utilizzare un martire nel ruolo chiave della contesa!
D’altronde la giornata di venerdì scorso è stata emblematica del rapporto critico tra media e Trump. Poco prima che giungesse la notizia del passo indietro di Spicer, le principali testate, col Washington Post in funzione apri pista, titolavano come Trump stesse sondando i propri legali intorno alla possibilità di concedere l’amnistia a se stesso in prospettiva Russiagate.
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La notizia, subito in prima pagina, è stata letteralmente rimpiazzata appena due ore dopo da quella relativa alle dimissioni di Spicer. Questa sequenza quasi ininterrotta di breaking news genera in Trump una vera e propria sindrome d’assedio e, dal suo punto di vista distorto (perché il Presidente non dovrebbe mai attaccare i media per ovvi motivi d’opportunità), corrobora il diritto di storpiare il quotidiano di Jeff Bezos in Amazon Washington Post o la CNN in Fake News Network.
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L’unico dato oggettivo in questa guerra senza esclusione di colpi (alla vigilia di tre audizioni chiave per il Russiagate: Kushner, Manafort e Trump Jr.) è che il deriso Sean Spicer se n’è andato con dignità.
Era il parafulmine del Presidente, un uomo che gli tweettava alle spalle mentre lui affrontava i giornalisti in modalità “portavoce smentito”, “portavoce ignaro”, portavoce come volete voi.
L’ultimo dei mohicani sapeva di esserlo? Forse Spicer – inadeguato finché si vuole – è stato l’ultimo dei portavoce di un mondo che fu, travolto dallo tsunami twitter e social media. E questo ci riguarda, purtroppo, tutti.