Dal Mondo
November 06 2024
La rielezione di Donald Trump ha scosso, anzi, riaperto vecchie ferite e nuove polemiche in un mondo che sembrava essersi abituato alla diplomazia delle parole a mezza voce. Con una freschezza tipica dell'imprevisto, Trump ha riacceso dibattiti, suscitato euforia in alcune capitali e preoccupazioni profonde in altre. Al centro della scena, il conflitto Russia-Ucraina e il sostegno americano a Kiev: quanto durerà? Quanto sarà compromesso? La risposta, o il mistero, dipende da Washington.
Si parla di un Trump «risolutore»: realismo o fantapolitica? La promessa di Trump è stata fin da subito chiara prospettando una risoluzione «in 24 ore» del conflitto. Pochi lo prendono alla lettera, molti però percepiscono un segnale concreto. Secondo il Washington Post, Trump avrebbe confidato che una delle sue soluzioni rapide consisterebbe nel persuadere Kiev a cedere la Crimea e il Donbass, regalando a Mosca un’ambita vittoria. «Pericoloso per la sovranità ucraina», hanno però affermato gli analisti, sebbene per il neo rieletto presidente sembri un classico affare «alla Trump», con negoziati diretti e soluzioni a colpi di cesello.
La reazione di Kiev non ha tardato. Zelenskij, in un video messaggio postato su Telegram, ha espresso speranza che Trump «contribuisca a una pace giusta per l’Ucraina», ma l’incertezza è palpabile, glielo si legge in volto. E mentre Zelenskij sottolinea «la pace attraverso la forza» come un possibile principio guida, a Kiev ci si chiede se l’America di Trump sia disposta davvero a difendere la sovranità ucraina come in passato.
Da Mosca, lo sguardo è cinico e pragmatico. Dmitrij Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, si è oggi espresso su Telegram con il distacco di chi è convinto di aver inquadrato il nuovo presidente americano. Trump, «da uomo d’affari fino al midollo», secondo Medvedev, odia «sprecare denaro» per una serie di «scrocconi e parassiti, alleati un po’ sciocchi, progetti di beneficenza inutili e ingorde organizzazioni internazionali».
L’Ucraina, descritta come «tossica e banderista», rientrerebbe perfettamente in questo gruppo, secondo il politico russo. La vera incognita, per Medvedev, è capire fino a che punto il sistema riuscirà a «strappare fondi a Trump per la guerra». Lui, dopotutto, è tenace, ma l’apparato americano è potente. Nel frattempo, il politico russo lascia ai suoi follower un’immagine dai toni crudi: «il verme verde a Kiev si sommergerà nel bianco polveroso fino alle orecchie». Parole che a Mosca vengono accolte con un certo compiacimento, evocando scenari che potrebbero avvantaggiare la strategia russa nel conflitto.
Putin, meno teatrale ma altrettanto soddisfatto, ha detto di vedere positivamente l’intenzione di Trump di «porre fine al conflitto in Ucraina». Del resto, al vertice BRICS di Kazan dell’ottobre scorso, come riportato dal New York Post, si era già detto pronto a «discutere qualsiasi proposta che possa portare alla pace». Un’apertura? Forse, ma il Cremlino conosce bene i rischi di una trattativa diretta con l’imprevedibile presidente.
A Bruxelles, i sorrisi sono gelidi e la cautela è d’obbligo. Nonostante le dichiarazioni pubbliche di collaborazione, i leader europei adottano un atteggiamento prudente, consci delle ripercussioni che la rielezione di Trump potrebbe avere su sicurezza e stabilità. Il presidente francese Emmanuel Macron ha espresso apertura al dialogo con il nuovo leader americano, auspicando un rapporto basato su rispetto reciproco e obiettivi comuni di pace e prosperità.
Dietro queste parole formali, però, l’incertezza prevale. La Ue teme che un disimpegno statunitense dal supporto militare all'Ucraina lascerebbe l’Europa a fronteggiare da sola le minacce di Mosca. Inoltre, le passate dichiarazioni di Trump sulla NATO hanno già alimentato tensioni a Bruxelles, sollevando dubbi sulla futura cooperazione transatlantica. L’ombra di un’America più isolazionista incombe su un’Europa che potrebbe ritrovarsi in prima linea, con tutte le implicazioni di un potenziale terremoto politico nel cuore del vecchio continente.
A Budapest, però, è ben diverso e si brinda. Viktor Orbán, uno dei principali sostenitori europei di Trump, festeggia apertamente: «una vittoria molto importante per il mondo», ha scritto su X, un augurio che lascia ben poco spazio all’immaginazione. Orbán, che ha sempre ostentato scetticismo nei confronti delle sanzioni contro la Russia, intravede ora un’opportunità per «rivedere il proprio sostegno all’Ucraina» sotto una nuova, e più americana, influenza.
In questo gioco di ombre e luci, Zelenskij è più che mai in bilico. Ogni parola, ogni silenzio pesano come pietre. L’invito a una «pace giusta»rivolto a Trump da parte del presidente ucraino trasuda diplomazia, ma cela preoccupazioni concrete. Cosa accadrebbe se davvero Washington decidesse di ridurre il supporto a Kiev? La realtà è che la posizione dell’Ucraina rischia di indebolirsi, e a farne le spese sarebbe, inevitabilmente, la sua sovranità. Eppure, Zelenskij non può fare altro che augurarsi che la nuova presidenza non sfumi le speranze di libertà dell’Ucraina.
E così, lo scenario che si apre sembra sospeso tra la speranza di una risoluzione e il timore di una resa camuffata da pace. Trump ha promesso di risolvere un conflitto che sembra essersi incancrenito, il conflitto dura da oltre 10 anni, con una fase particolarmente intensa negli ultimi 2 anni e 8 mesi, ma sarà davvero così? Da Bruxelles a Mosca, da Kiev a Budapest, il mondo trattiene il respiro. L’America, con la sua voce dissacrante, si prepara ancora una volta a essere l’arbitro, o il disgregatore, di una pace complessa.