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March 22 2013
il libro della guerra feroce tra spirito e desiderio, che i dotti direbbero tra dionisiaco e apollineo, del rumore di armi scintillanti adoperate dalla bellezza e dal rigore nella lotta per il cuore (la mente) di un oggetto amato, sia essa una dama, una città, o l’umanità intera, come sono i tre casi del libro; insomma, gli argomenti del presente, mi pare, esigono molto meno per essere interpretati.
C’è Lorenzo il Magnifico moribondo nel suo letto; attorno, tra marmi da toccare, quadri splendidi da bere con gli occhi, vasi superbi tra stringere tra le mani, a lui si muovono le figure di quel palingenetico 1492: i figli Piero e Giovanni, i protetti Angelo Poliziano, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, che lo piange come fanno i geni: con matematica, ironica disperazione. C’è Luigi Pulci che ricorda al suo Signore che solo il corpo esiste, ma allora perché Lorenzo sente questo «gelo nel cuore»? Perché la bellezza non basta di fronte all’angoscia della morte? Era così bella Firenze, dice nel delirio, quando risuonava come una lira, echeggiando del mio desiderio!
C’è anche una donna, Fiorenza, «simmetrica, artificiosa, misteriosa», che ha preso il cuore di tutti ma ha dato il suo solo a Lorenzo. C’è un frate, a Firenze, che va dicendo che non c’è salvezza nel bello, nella gioia degli occhi, dove anzi si annida il Maligno.
Fiorenza si muove come una gatta sapiente, con grazia perfida, tra i giardini del palazzo e le stanze del signore di Firenze; ascolta e critica le parole dei dotti con una increspatura del labbro; si reca in duomo a sentire il frate, di cui tutti parlano.
Un giorno viene da questi, dal pulpito!, oltraggiata, paragonata alle peggiori meretrici, chiamata esca di Satana. Cosa vuole il frate da te?, le chiede Lorenzo. Fiore racconta.
Quando era una ragazzina lei e Girolamo, taciturno, brutto, solitario, vivevano nella stessa città, Ferrara.
Lui la amava dolorosamente, ma come avrebbe potuto lei ricambiato? Insieme agli altri bambini, lo schernisce tirandogli sassi alla finestra della sua stanza, dove è chiuso come un piccolo monaco a studiare Aristotele. Un giorno lo attira un casa sua e con una smorfia invitante gli dà una speranza. Lui le cade ai piedi, lei lo respinge disgustata. La sera stessa Girolamo parte per Bologna e prende i voti.
È questo episodio che oggi Fiorenza racconta a Lorenzo, sfinito dalla febbre. Forse è questo il motivo, il trauma sessuale, direbbe Freud, che ha fatto del frate il peggiore nemico della felicità di Firenze. «Egli vitupera Firenze», dice Lorenzo. «Per questo Firenze lo ama», risponde lei. Sarebbe il caso, suggerisce con la durezza di chi possiede la ragione storica, che tu lo ricevessi, e mettessi definitivamente fine alla guerra che lui ti ha dichiarato in quanto Signore di Firenze. È ora di capire chi comanda, se tu, coi tuoi sonetti sul godimento e il tempo che brucia lasciando cenere, o lui, che parte dalla cenere e ad essa conduce ogni cosa.
È il momento più pericoloso del libro. Si tratta di: porre a motore della storia le parole di una donna; misurare la reazione di un Medici al cospetto della sfida, della morte, della gelosia e della vendetta; si tratta, poi, di fare incontrare Lorenzo il Magnifico con Savonarola, e solo uno scemo può pensare che si tratti di un incontro tra due persone e non di due civiltà, di due blocchi di umanità ferocemente contrapposti.
Come si comporta Thomas Mann? Cosa fa succedere, come fa reagire Lorenzo alla rivelazione di Fiore?
Si può anticiparlo andando a leggere le lettere che Thomas Mann scriveva in quei giorni, quando l’ultima riga di Fiorenza era stata tracciata ma lui ancora si arrovellava:
«Fiorenza è un sogno di grandezza e di potenza spirituale. Si tratta di anime, si tratta del Regno, questo è tutto. È la rappresentazione di una lotta eroica tra i sensi e lo spirito: e questa rappresentazione è del tutto imparziale», scrive all’amico Kurt Martens, che lo aveva letto in anteprima, il 28 marzo del 1906.
Martens non è sicuro che lo sguardo di Mann sia imparziale: lo ha accusato di tifare per lo spirito, in poche parole (lo capiamo dalla reazione piccata di Mann che riporta le sue frasi come ustionanti prove dell’accusa di colui che negli anni di Monaco era stato molto più di un amico).
«“T.M., condannato da tutta la sua natura a essere un asceta”; non è un errore ma un’esagerazione. (Ripeto, eri costretto a dire qualcosa di deciso). Io sono un asceta nel senso che la mia coscienza mi fa guardare a ciò che uno riesce a fare piuttosto che al piacere o alla “felicità”: tanto peggio per me, che riesco a fare pochino. Perciò credo di essere asceta solo in questo senso: “Aspiro forse alla felicità? No, io aspiro alla mia opera! Io diffido del piacere, diffido della felicità, li ritengo improduttivi.
Sono stato un uomo tranquillo e cortese, che, col lavoro delle sue mani, si è conquistata una certa agiatezza, ha preso moglie, ha messo al mondo dei figli, assisteva alle prime teatrali ed era un buon tedesco che all’estero non ci resisteva più di un mese. È proprio indispensabile essere anche un giocatore di birilli e un bevitore?».
Non c’è pace per chi ha assaporato la bellezza, dice Lorenzo.«Tu fossi assegnata a me, o meravigliosa», sussurra a Fiore.
«Lei “deve” essere mia moglie», scriveva Mann a Katja due anni prima. «Tra noi due deve parlare la ragione».
È per questo che se torniamo nella stanza da letto di Lorenzo, in quell’atmosfera durissima e tesa di quel 9 aprile 1492, poco prima che nella stanza faccia il suo ingresso il Savonarola in persona e dopo di lui la morte, troviamo il Magnifico che ascoltate le parole di Fiore le dice:
«Tu l’hai fatto grande».
«Io…?” chiede interdetta lei.
Sì, dice dice lui «Tu l’hai fatto grande! Più grande di me a cui ti sei concessa».