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October 12 2016
Stia tranquillo: qui, fino al referendum, non si muove una foglia». La malevola insinuazione sulle sorti dell’inchiesta su Banca Etruria si rincorre tra i corridoi della Procura di Arezzo. Lo snodo della maldicenza è Pier Luigi Boschi: ex vicepresidente dell’istituto e padre del ministro delle Riforme Maria Elena, autrice della revisione costituzionale per cui si voterà il 4 dicembre 2016. Boschi senior sarebbe indagato per bancarotta fraudolenta assieme ai componenti dell’ultimo consiglio d’amministrazione: indiscrezione che però non ha mai trovato conferme ufficiali.
C’era un tempo in cui la giustizia, se intercettava premier e ministri, andava a tutta birra: indagini fulminee, intercettazioni a tappeto, rinvii a giudizio solerti, condanne esemplari. E, come corollario, pubblico ludibrio sulla quasi totalità dei media italiani. La nuova era del potere renziano ha invece inaugurato la stagione delle guarentigie istituzionali: verifiche certosine, riserbo assoluto, retroscena centellinati, nessuna ingerenza. Una sensazione che ha sfiorato anche l’istruttoria del Consiglio superiore della magistratura proprio sul procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, archiviata lo scorso luglio. Un’indagine di cui Panorama è in grado di rivelare documenti inediti: dimostrano come il Csm, nella relazione finale approvata dal plenum, abbbia depurato critiche al pm e riferimenti a possibili cortocircuiti politici.
L’inchiesta per la bancarotta di Banca Etruria, la cui cessione a Ubi banca perorata dal governo continua a complicarsi, prosegue intanto come un sottomarino al largo dell’oceano. Indagano quattro magistrati: il procuratore Rossi spallegiato da tre sostituti. A nessuno sfugge un fiato. L’apertura del fascicolo fu quasi ovvia, dopo che il Tribunale di Arezzo a marzo 2016 aveva dichiarato lo stato di insolvenza della banca. L’attenzione, per adesso, sembrerebbe concentrata sulle responsabilità dei vecchi manager piuttosto che sull’ultimo cda, guidato da Lorenzo Rosi, di cui faceva parte anche Boschi.
L’unico atto formale dell’inchiesta, infatti, sembrerebbe la perquisizione, il 23 giugno 2016, ai due uomini al vertice dell’istituto fino al 2014: l’ex presidente Giuseppe Fornasari e il suo vice Giorgio Guerrini. A fine ottobre è prevista, invece, la sentenza per l’ostacolo alla vigilanza. Gli imputati sono tre: lo stesso Fornasari, l’ex direttore generale Luca Bronchi e il dirigente Davide Canestri. Un filone aperto alla fine del 2013, dopo che la relazione degli ispettori della Banca d’Italia sull’istituto aretino viene inviata alla Procura. Insomma, un altro atto quasi dovuto.
Le verifiche sulla bancarotta sembrano però procedere con i piedi di piombo. A fine settembre i magistrati avrebbero chiesto la proroga delle indagini preliminari. Altri sei mesi di tempo, fino al marzo 2017. Quando, sottolineano i maldicenti, sarà passata la buriana del referendum sulla «Riforma Boschi». I risparmiatori beffati sono però agguerriti. Il 25 settembre 2016 l’Associazione vittima del salvabanche è tornata a manifestare a Laterina, il paese dell’aretino dove vive la famiglia della ministra. Nel comunicato che «invita alla mobilitazione» il comitato, guidato da Letizia Giorgianni, attacca: «Inizieremo a far pressione sulla Procura di Arezzo, che sembra assopita. A differenza delle altre tre Procure che indagano sugli istituti falliti, non ha neppure predisposto il sequestro conservativo dei beni degli ex amministratori coinvolti nella bancarotta fraudolenta. A distanza di nove mesi, i risparmiatori non hanno nessuna garanzia di riottenere i loro soldi».
L’unica cosa certa è che la genesi delle indagini su Banca Etruria è stata piuttosto travagliata. A dicembre del 2015 viene fuori che il procuratore Rossi, il titolare del procedimento, è consulente della presidenza del Consiglio. E del governo fa parte anche la ministra Boschi: il cui padre sedeva nel cda dell’istituto. Su richiesta del consigliere Pierantonio Zanettin, il Csm apre un fascicolo per valutare il trasferimento di Rossi. Un mese dopo, il procedimento è già a un passo dall’archiviazione. Ma il 20 gennaio 2016 viene diffusa l’anticipazione di un’inchiesta di Panorama: Rossi, che al Csm ha dichiarato di non aver mai conosciuto nessuno della famiglia Boschi, dal 2010 aveva già indagato per ben tre volte sull’ex vice presidente di Banca Etruria, chiedendo sempre l’archiviazione. Un rapporto di conoscenza che poi, nel corso delle successive audizioni, il procuratore specificherà non essere mai stato personale, ma «puramente cartaceo».
Il Csm, pungolato da Zanettin, riapre il fascicolo. L’istruttoria riparte. Seguono mesi di innocue audizioni. Fino alla relazione approvata il 13 luglio 2016 dalla prima commissione, titolare delle pratiche disciplinari. Pur sollevando dubbi sull’operato di Rossi, viene chiesta l’archiviazione. Una settimana dopo, il 21 luglio, il plenum del Csm discute il documento. Che però, un emendamento dopo l’altro, viene depurato da ogni critica. Panorama è in grado di rivelare questi «sbianchettamenti». A pagina 16 della relazione, la prima commissione scrive: «Si ravvisa nell’atteggiamento di Rossi durante le audizioni una qualche esitazione ogni qual volta si toccava il tema dei contatti con esponenti del mondo politico-istituzionale». Frase sparita nella versione finale. A pagina 20, un altro omissis. Riguarda le tre consulenze per la presidenza del Consiglio: Rossi dice di averle svolte a titolo gratuito, e solo per acquisire titoli utili per «l’avanzamento di carriera». La prima commissione però scrive: «Non sono esaustive alcune spiegazioni sulla previsione di un compenso, sulla mancata presentazione al Csm di dichiarazioni dei carichi di lavoro e sulla possibile inopportunità della prosecuzione di una certa consulenza». Passaggio non lusinghiero. Cassato pure questo.
A pagina 21 si torna sull’incarico governativo del 2015: «Epoca in cui Rossi era l’unico titolare di un’indagine che avrebbe potuto coinvolgere un familiare di un importante esponente del governo». Questa circostanza, continua la delibera, «avrebbe potuto consigliare scelte più articolate sull’assegnazione dei fascicoli o almeno sulla comunicazione al Csm sulla possibile inopportunità del medesimo». Dietro il burocratese c’è una netta presa di distanza. Dagli atti emerge pure che il procuratore ha tenuto per sé tutte le inchieste sull’istituto aretino. Solo dopo le due audizioni davanti al Csm ha creato un pool investigativo. Poco importa. Anche queste critiche vengono rimosse.
La delibera conclude riassumendo i dubbi emersi: la prosecuzione della consulenza nonostante le indagini «potessero riguardare Boschi»; la mancata comunicazione al Csm di «possibili profili di incompatibilità»; la prosecuzione dell’indagine «in veste di unico titolare». Ma anche queste conclusioni spariscono dal testo definitivo. Così come la richiesta di inserire la delibera «nel fascicolo personale del magistrato», una scelta che avrebbe potuto procurargli seri fastidi nel prosieguo della carriera. Resta solo l’indicazione di trasmettere gli atti alla Procura generale di Cassazione «per le eventuali valutazioni di sua competenza».
L’intervento del plenum è talmente invasivo da convincere molti consiglieri all’astensione. Il consigliere Giuseppe Fanfani preferisce invece non partecipare alla votazione. Il motivo è chiaro: Fanfani, che è stato eletto al Csm su indicazione del Pd, è un avvocato di Arezzo. E ha difeso Boschi senior in precedenti traversie giudiziarie, sulle quali indagava Rossi. La delibera del Csm, alla fine, viene comunque approvata con 11 voti favorevoli, nove astenuti e un solo contrario: Zanettin. «È innegabile che Rossi sia esposto al sospetto assai sgradevole di aver favorito, magari solo per ritardata iscrizione, l’illustre indagato Pier Luigi Boschi: parente di un esponente del governo di cui era consulente» dice ai colleghi il 21 luglio 2016, prima della controversa approvazione del documento. «C’erano tutti i presupposti per il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale».
Rossi, invece, è rimasto saldamente alla guida della Procura di Arezzo. Le indagini proseguono. E i risparmiatori chiedono giustizia. Uno di loro, Carlo Ciulli, s’era già rivolto alla Procura. La sua denuncia viene allegata dal Csm al «caso Rossi». Il 29 giugno 2013 Ciulli presentava un esposto sulla manipolazione del titolo e sulla pessima gestione di Banca Etruria. Le sue azioni avevano perso il 70 per cento del valore in un week-end. Viene aperta un’indagine. Quattro mesi dopo, il 23 ottobre 2013, arriva però a Ciulli la richiesta di archiviazione: «Per essere rimasti ignoti gli autori del reato». Ci sono colpe, ma non colpevoli. Firmato: Roberto Rossi, procuratore della Repubblica.