Tutti in piedi (ma costretti a rimanere seduti) – La recensione
Disabile per amore e per opportunità. Probabilmente anche per necessità e, forse, un po’ per dovere. Spezzando più d’un tabu sulla disabilità e avviandosi al compimento di un costrutto cinematografico per nulla banale, Franck Dubosc celebra il tripudio dell’equivoco nel nocciolo di una commedia romantica icastica e fantasiosa, Tutti in piedi (in sala dal 27 settembre, durata 108’). Dove il suo personaggio Jocelyn, che di norma è viveur turbolento, sciupafemmine e mentitore seriale, si finge paraplegico in un bizzarro gioco d’attrazione per una Florence che ha il volto di Alexandra Lamy e nella scena vive per davvero su una sedia a rotelle: squadernando, oltre la bellezza luminosa, una raffica di eccellenze praticamente in tutto, dal violino al tennis.
C’è sempre chi vuol sembrare diverso da come è davvero
Arte e movimento, nonostante l’handicap, di donna raffinata, dolce e decisa. Cui il sempre più invaghito Jocelyn adegua la sua personalissima vita in carrozzella, interamente orientata alla finzione, mettendo in fila nella gigantesca impostura una caterva di moventi psicologici e pratici. Per esempio interpretando al meglio l’atteggiamento (diffusissimo) di chi, per raggiungere un obiettivo qualsiasi – nel caso specifico sentimentale – vuol sembrare diverso da come è per davvero; mettendo in campo ragionamenti anche più complessi sugli atteggiamenti di facciata.
E alla fine la menzogna diventa una prigione
Poi c’è la faccenda della menzogna dalla quale, una volta che se ne è intrapresa la strada, non si riesce ad uscire. Infine l’imbarazzo e il pudore, per non dire la vergogna, legati al timore della rivelazione e, con questa, il naufragio di un intero disegno oltre, naturalmente, la figura barbina rimediata con l’altra parte, nella fattispecie un’amata. Insomma ce n’è abbastanza per gustare il film, pure nella sua sola parte di superficie e senza tirare in ballo motivi troppo profondi sul contradditorio fra l’essere e l’apparire o, peggio, sui temi dell’identità.
Una cena nell’acqua per confessare i propri segreti
Quelli, magari, lasciamoli a Pirandello o ai filosofi, incominciando da Parmenide per finire a Bradley passando per tutti i grandi che si sono occupati del dilemma. Piuttosto, Dubosc riesce a divertire sul serio, ad intenerire e far riflettere in poche semplici mosse: impacchettando la sua opera prima da regista con molte componenti del proprio trascorso artistico di successo, nello specifico teatrale e televisivo e relativi exploit da monologhista, nel cinema medesimo che frequenta dalla metà degli anni Ottanta. La doppia vita del suo Jocelyn non è cero abissale come quella della Veronica di Kieślowski (mon Dieu, che ricordo luminoso) ma lascia partire bei riflessi, come quelli del convivio acquatico e meditativo fra i due innamorati che si confessano le loro inclinazioni più riservate.
Affermazione di indirizzo stilistico e ordine culturale
Insomma il cinema francese dimostra, ancora una volta, di (s)cavalcare il politicamente corretto, senza farsi troppi scrupoli – come già accadde in Quasi amici di Nakache & Toledano – sul soggetto della disabilità: mantenendo anzi una delicatezza di tocco che, proprio per essere tante volte ribadita (non solo in questo ma in diverse altre opere), rappresenta un’affermazione di indirizzo stilistico e di maturità superiore. Anche di ordine culturale. Senza tradire, in ogni caso, le peculiarità di un genere, com’è appunto la commedia, che ha bisogno di tutto il suo specifico per conquistare il pubblico: in equilibrio tra gli elementi comico e drammatico. A questo Tutti in piedi unisce una recitazione senza macchie, una felice armonia narrativa e un tocco fotografico (di Ludovic Colbeau-Justin) di improvvise suggestioni.
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