«La televisione demiurgo della modernità italiana»

Fu alle 11.30 di domenica 3 gennaio 1954 che iniziarono le prime trasmissione televisive nella storia del nostro Paese: ma sarà alla sera, alle 20.30, che la Rai offrirà un format capace di segnare i successivi settant’anni della storia del nostro Paese.

A cavallo tra la fine degli anni Cinquanta ed i primi anni Sessanta, tra missione unificatrice della Nazione e pedagogia della comunicazione, sviluppo tecnologico e curiosità per una scatola che non è azzardato definire “magica”, partiva la storia delle trasmissioni televisive targate Rai. E sarà, soprattutto, con un format del tutto innovativo -il telegiornale- ad imprimere una svolta (senza ritorno) verso l’informazione di massa. Erano gli anni del boom radiofonico, con impianti disseminati un pò per tutto il Paese e con abbonamenti che, in quei mesi, sfioravano i 5 milioni di utenti.

A tirare la volata era soprattutto il Giornale della sera, strumento di informazione, certo, ma anche di fedele “compagnia” mediatica: e proprio sulle onde radio viaggiava, nel 1953, una programmazione che riprendeva il problema della disoccupazione su cui la Camera dei deputati stava svolgendo un’indagine conoscitiva. Intanto qualcosa si era mosso nello sviluppo tecnologico, dall’audio al video, con le prime trasmissioni sperimentali di un telegiornale e di cronache in diretta: l’inaugurazione della Fiera di Milano e Pio XII che impartisce la prima benedizione Urbi et Orbi, sono il segnale di uno sviluppo non solo tecnologico ma di impostazione culturale, quasi a voler segnare il destino della stessa azienda di Stato. «L’inizio ufficiale delle trasmissioni avviene il 3 gennaio 1954, una domenica.

Lo stesso giorno Pio XII invoca pubblicamente l’emanazione di “opportune norme dirette a far servire la televisione alla sana ricreazione dei cittadini e a contribuire altresì, in ogni circostanza, alla loro educazione ed elevazione morale”. Il monito del Papa (che sarà ribadito nel 1957 con l’enciclica Miranda prorsus dedicata al cinema, alla radio e alla televisione) non cade nel vuoto. Per un biennio il controllo della Dc sulla Rai è marcato da una forte influenza dell’Azione cattolica”». Dritto al cuore della questione questo fondamentale passaggio storico Paolo Murialdi (1919-2006), giornalista e storico del giornalismo, autore nel 1996 per i tipi del Mulino (e giunta nel 2021 alla quinta edizione) della fondamentale “Storia del giornalismo italiano. Dalle gazzette a Internet”, in cui viene ricostruita vicenda storica oggi giunta al traguardo delle 70 candeline.

E quasi a segnare l’inizio di una pedagogia della comunicazione mediatica che sarà il marchio di fabbrica nei successivi anni, il Telegiornale diventa il centro delle nuove trasmissioni: va in onda alle 20.30 della sera, il primo direttore sarà Vittorio Vetroni, e la copertura del segnale, in appena 12 mesi, interesserà quasi il 50% della popolazione, con gli abbonati che schizzano addirittura all’88%. Quelle prime immagini sfocate, in rigoroso “bianconero”, fuoriescono da una misteriosa scatola in legno e metallo ancora troppo costosa per la stragrande maggioranza degli italiani, capace però di far conoscere il primo quiz della storia della televisione italiana, quel “Lascia o Raddoppia” che porterà Mike Bongiorno alla strabiliante quota di 10 milioni di telespettatori a serata.

Tutt’attorno al telegiornale della sera, in quel biennio ’54-’56, si svilupperà l’informazione di massa capace di divenire la cifra culturale più marcata del nostro paese: un telegiornale, quello degli inizi, condotto da annunciatori (da speakers, avrebbero detto gli amanti delle atmosfere anglosassoni…), che si limitava a trasmettere cerimonie del genere più disparato, e che risultava politicamente orientato, senza il resoconto di fatti di cronaca o di vicende giudiziarie, a differenza di ciò che sarebbe accaduto negli anni a venire.

Ma era un telegiornale che iniziava (e questo il dato sociologico e comunicativo più importante) a fare capolino nelle case di un numero crescente di italiani superando di gran lunga la capacità penetrativa del medium cartaceo per eccellenza, il quotidiano, giusto per intenderci: e tutt’attorno alla televisione e, nello specifico, al telegiornale della sera, nascerà l’idea stessa di informazione di massa. In quel contesto, del tutto innovativo per il nostro Paese, come ha evidenziato Enrico Menduni (1948) ne La televisione (Il Mulino, 2002), questo innovativo e strabiliante medium «ha rappresentato uno strumento di democratizzazione e di trasparenza degli eventi: il mondo, con i suoi misteri e le sue meraviglie, in ogni casa». Insomma, la televisione come new medium e il televisore come elettrodomestico getteranno le basi per creare quel rapporto, ora ampio ed esterno, ora ristretto ed intimo, tra la vita pubblica, politica e quella privata, individuale: tra l’organizzazione dello Stato e quella della vita domestica. Insomma tra la componente istituzionale e quella sociale della nostra giovanissima Repubblica, al punto che lo stesso palinsesto televisivo si sarebbe adattato, nel tempo, alla vita domestica degli spettatori, dei cittadini, insomma, arrivando a scandirne tempi e ritmi di vita.

Alla fine, per ovvia conseguenza, per dirla con Mario Morcellini (1946), - Professore emerito di Sociologia dei Processi culturali e comunicativi, alla Sapienza Università di Roma e presidente onorario della Conferenza Nazionale dei Corsi in Scienze della Comunicazione- «la televisione sarebbe stata l’elemento cardine dei consumi culturali e l’elemento di socializzazione culturale alla modernità degli italiani». Passeranno anni, ancora, per assistere alle Tribune elettorali, (nel 1960) e a quelle politiche (nel 1961) con Gianni Granzotto, Giorgio Vecchietti e Jader Jacobelli a moderare maggioranza e opposizioni, all’alba di un decennio nel quale le scelte editoriali sarebbero state sempre più caratterizzate da direzioni politiche e clientelari, al punto da spingere Arrigo Levi, (1926-2020), primo giornalista a condurre un telegiornale nel 1966, ad affermare, nel suo ironico Televisione all’italiana (EtaKompass, 1969), che «la tendenza dominante è di trattare il Tg come una specie di appendice e prolungamento dei vari uffici stampa ministeriali».

Passano i mesi e muta anche il paesaggio urbano: ad osservare lo skyline delle nostre città ci si accorge che la selva delle antenne sta letteralmente aggredendo case e palazzi: nel 1963 gli abbonati alla Rai salgono a 4 milioni e 300 mila e si calcola che siano almeno 15 milioni gli italiani che, di sera, rimangano incollati alla televisione. Migreranno all’edizione del 13.30 del Tg dal 15 gennaio del 1968, completando un’offerta informativa che appariva miracolistica, completata da quotidiani, settimanali e fogli vari.

Sul più complesso significato sociale di un medium come la televisione e del suo avvento, Panorama.it ha chiesto allo storico dei media Vittorio H. Beonio-Brocchieri qualche spunto di riflessione.

Professore, l’avvio delle trasmissioni televisive targate Rai segnò il cambio di rotta “sociale” nel mondo dei media.

«Quando pensiamo alla storia della televisione italiana e al suo impatto sulla società italiana, credo si debba partire da un dato incontrovertibile, ovvero che nel nostro paese, più che altrove, la storia della televisione coincida con quella della modernizzazione. L’Italia diventa una società moderna, di massa, industriale assieme alla televisione».

Altrove le cose sono andate diversamente?

«Mentre per altre società occidentali -pensiamo all’Inghilterra, alla Francia o alla Germania- il processo di modernizzazione si è dispiegato seguendo tempi molto più lunghi con la Tv intervenuta in una diversa fase storica, da noi -invece- questi due elementi, modernità e televisione, coincidono temporalmente. La modernità è la televisione, in Italia».

1954, significa “boom” economico, praticamente…

«Non si trattò più, soltanto, di cicatrizzare le ferite della guerra: prese avvio un processo trasformativo della società italiana che la televisione continua ad accompagnare praticamente fino ai nostri giorni. L’impatto della televisione sulla società italiana fu talmente profondo da valere non soltanto sul piano strettamente tecnico della comunicazione, quanto anche su quello più ampiamente culturale, sociale, politico.

Un doppio piano interpretativo, allora…

«Esattamente come i meriti e le colpe della televisione che l’hanno trasformata nel demiurgo della modernità italiana. Tra i meriti spicca l’unificazione linguistica del Paese, nel senso che gli italiani impareranno a parlere l’italiano anche grazie alla televisione, oltre che alla scuola, ovviamente. Certo, non sono mancati i demeriti, come la diffusione di modelli non sempre in linea con le fondamenta della stessa società italiana».

Parla anche di modelli negativi, pare di capire…

«Nella seconda fase della modernizzazione, ovvero dalla seconda metà degli anni Sessanta, alla televisione venne additata la responsabilità di aver diffuso modelli consumistici, individualistici, edonistici colpevoli -a loro volta- di aver contribuito a disgregare le basi della società italiana».

Come storico la periodizzazione è parte integrante del suo ragionamento.

«C’è stato un prima, la paleotelevisione, che definì quell’arco temporale compreso tra il 1954 e l’inizio degli anni Settanta: è stata la fase più spiccatamente “pedagogica”, praticamente sovrapponibile alla direzione generale di Ettore Bernabei (tra il 1961 ed il 1974): approfondimenti giornalistici e sceneggiati (la Cittadella, la Freccia nera, i Fratelli Karamazov) tratti dai grandi romanzi, rappresentarono la cifra culturale di quel periodo. Si trattava di una televisione molto “sorvegliata” per ragioni politiche e culturali, destinataria di un ruolo educativo e formativo. Insomma: la “volgarizzazione” dell’alta cultura».

E, crediamo ci sia stato anche un dopo…

«Certo, quella della neotelevisione, che coprirà il ventennio successivo, 1975-1994: la televisione impersona ogni tipo di ruolo, si piega ai desiderata di un pubblico sempre più esigente (nasce il concetto dei “pubblici”), subendo contestualmente la pressione della nascente televisione commerciale. Venuta meno, in pratica, quella fase “educativa” e saltato il tappo delle televisioni private, questo medium non sarà più il simbolo dell’italianità “toto corde”, sostituendo alla mission “generalista” una forte tematizzazione».

Vittorio H. Beonio-Brocchieri, milanese, classe 1962, laureato in storia moderna presso l'Università di Pavia e dottorato presso l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, è associato di Storia moderna all’Università della Calabria, dove insegna Storia dei media nel corso di laurea in Media e società digitale, seguendo particolarmente il filone della storia sociale dei media. Docente di Storia internazionale del mondo moderno nell’Università Statale di Milano, si occupa anche di storia economica e sociale e di World History oltre che di storia del pensiero politico. Tra le sue ultime pubblicazioni, Immagini del tempo e della storia nella modernità. Uno sguardo critico, Carocci 2022.

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