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Umberto Saba, il poeta che trovava Dio negli umili

Dopo il successo delle celebrazioni per il Dantedì, Panorama lancia una nuova proposta letteraria. Per affrontare questi tempi incerti, il suggerimento è di aggrapparci al nostro patrimonio culturale. E visto che, come ha scritto il 19 aprile Paolo Rumiz, il verso «è terapeutico come l'amore» e «la bellezza è l'antivirus più efficace», presentiamo sei interpreti della nostra tradizione. L'iniziativa Poesia per r-esistere è realizzata in collaborazione con alcuni docenti di Lettere dei licei Faes di Milano e con il professor Gianni Vacchelli, docente alla Statale di Milano. La terza puntata è dedicata al cantore di Trieste.

Umberto Saba porta nel suo cognome il ricordo di un dolore: un padre che abbandona la donna che porta in grembo suo figlio. Ugo Eduardo Poli è il suo nome, Umberto quello del figlio. Umberto all'età di 27 anni rifiuterà il cognome paterno, scegliendo uno pseudonimo: Saba, che in ebraico - sua lingua madre - significa «nonno»; ma la scelta è legata anche al nome della balia che l'ha cresciuto per i primi quattro anni della sua vita: Peppa Sabaz, amatissima, come una madre.

Poi, è il 1887, un altro strappo, un altro dolore: la madre lo riprende con sé separandolo dall'amata balia. Saranno ferite e ricordi di dolore, proprio nel periodo dell'infanzia, quando si formano la nostra mente e la nostra personalità.

Poi una vita quasi normale, nella sua Trieste città di confine, bella e insidiosa, con la sua «scontrosa / grazia… come un ragazzaccio aspro e vorace, / con gli occhi azzurri e mani troppo grandi / per regalare un fiore», come canta nella poesia Trieste; ha una moglie fedele, Lina, e un'amatissima figlia, Linuccia, «con gli occhi grandi colore del cielo» come scrive nella bellissima Ritratto della mia bambina.

Quella di Umberto Saba è una vita fatta di dolori, di distacchi, di momenti depressivi, ma anche di amore, entusiasmo e vera gioia di vivere, come quella di ognuno di noi. Nel suo Canzoniere, titolo che omaggia la grande tradizione lirica italiana da Francesco Petrarca in poi, passando per Giacomo Leopardi, Saba aspira a una poesia onesta, autentica, che parli di sé e che sappia gettare una luce di verità sulla propria storia. La poesia è uno strumento di ricerca e di indagine, innanzitutto sull'interiorità del poeta. Alla fine si scopre che c'è un fondo comune a tutti gli uomini, quello che Giuseppe Ungaretti chiamava «porto sepolto». Lì ci ritroviamo esattamente come lui: creature fragili, con una storia di amore e dolore, desiderosi di senso e di armonia con noi stessi e con il mondo.

La poesia onesta di Saba, quella che non «forza l'ispirazione», come scrive lui stesso, è una poesia eccentrica, del tutto diversa dalla ricerca poetica della prima metà del Novecento, erede del simbolismo francese, alla ricerca di un mistero da decifrare, di quella che Eugenio Montale chiamava la «maglia rotta nella rete che ci stringe». La poesia di Saba non ha pretese di rivelazione del mistero, ma ci porta nella concretezza della vita: una città, una moglie semplice e fedele, una figlia amatissima, un bambino che gioca su una spiaggia, si tuffa e si sdraia al sole; questi temi semplici sono trattati con uno stile semplice, immediato. Ma la semplicità, ricordiamocelo, è la cosa più difficile come il poeta scrive in un altro testo: «M'incanto la rima fiore / amore/ la più antica difficile del mondo».


Spesso, per ritornare alla mia casa

prendo un'oscura via di città vecchia.

Giallo in qualche pozzanghera si specchia

qualche fanale, e affollata è la strada.


Qui tra la gente che viene che va

dall'osteria alla casa o al lupanare

dove son merci ed uomini il detrito

di un gran porto di mare,

io ritrovo, passando, l'infinito

nell'umiltà.

Qui prostituta e marinaio, il vecchio

che bestemmia, la femmina che bega,

il dragone che siede alla bottega

del friggitore,

la tumultuante giovane impazzita

d'amore,

sono tutte creature della vita

e del dolore;

s'agita in esse, come in me, il Signore.


Qui degli umili sento in compagnia

il mio pensiero farsi

più puro dove più turpe è la via.

(Città vecchia)

Eccola qua la semplicità di cui parlavamo: versi semplici ma di grande profondità. La prima parte della poesia ci porta in un luogo ben preciso: siamo al porto di Trieste, la sera, in un percorso abituale («spesso»). Il cammino è una discesa in una «via oscura», con un aggettivo di ascendenza dantesca: siamo in luoghi non esaltanti, brutti, degradati; uomini e merci sono «detriti», scarti della società.

Ma proprio qui, dice il poeta, «ritrovo l'infinito nell'umiltà»; l'infinità del divino nella pochezza dell'umano: la prostituta, il marinaio, il vecchio che bestemmia, il soldato che mette qualcosa di fritto sotto i denti. E il poeta dice di queste anime maledette: «S'agita in esse, come in me, il Signore»: non le guarda da lontano, ma vi si immerge, lui è uno di loro, creatura tra le creature. Il riferimento religioso è esplicito: il divino si incontra negli ultimi, nei dimenticati, negli «scartati» dalla società.

Questa discesa nella città vecchia è l'immersione in quella che Saba chiama «calda vita»; ed è una purificazione, un battesimo di un uomo tra gli uomini, di una creatura tra le creature. E chissà che anche noi, alla fine di questo periodo, non avremo bisogno del nostro personale battesimo per sentirci uomini tra gli uomini.

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