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October 13 2017
Dal Cairo le due principali forze politiche palestinesi, Al-Fatah e Hamas, affermano di aver raggiunto un accordo “definitivo”.
L’intesa è stata siglata grazie alla mediazione dell’Egitto, che ha ospitato il summit nei locali del quartier generale dell’intelligence egiziana, non proprio in un luogo trasparente, dunque.
La riconciliazione segna apparentemente la fine della guerra civile esplosa a Gaza nel 2006 proprio tra Al-Fatah e Hamas, che ha portato quest’ultimo movimento a prendere il controllo della Striscia per i successivi dieci anni.
Hamas è da tempo in crisi di consensi nella Gaza Strip, attraversata da spinte centrifughe verso gruppi ancor più radicali del partito legato a doppio filo ai Fratelli Musulmani, ossia proprio gli arcinemici dell’Egitto di Al Sisi.
Lo stesso Stato Islamico negli ultimi anni ha raggiunto cuori e menti di parte della popolazione più giovane e, complice l’incapacità di Hamas nel provvedere a sufficienza ai beni primari della popolazione locale (vedi luce, acqua e gas), ha iniziato a erodere da dentro il potere che Hamas deteneva nella Striscia grazie soprattutto ai finanziamenti provenienti dall’estero. Che nel tempo sono andati scemando.
L’accordo raggiunto adesso con Al Fatah, che invece controlla da tempo la cosiddetta West Bank (Cisgiordania), è dunque anche sintomo della posizione sempre più debole del “partito di Gaza”.
La road map prevede la creazione di un governo congiunto per la gestione di tutti quei territori considerati Palestina.
Ma soprattutto stabilisce che d’ora in avanti saranno esclusivamente i funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) - cioè l’istituzione scaturita dagli Accordi di Oslo (1994) che si potrebbe definire come una cabina di regia governativa di cui Abu Mazen è presidente - ad avere il controllo diretto dei valichi di frontiera nella Striscia di Gaza.
L’intesa, solo pochi anni fa considerata improbabile, è sì frutto dell’instancabile lavoro diplomatico egiziano, che ha tutto da perdere da avere un nemico al confine e tutto da guadagnare nel depotenziare la minaccia della Fratellanza.
Ma in verità è stato reso possibile dal crescente peso della Russia nella regione.
Un accordo di principio per la costituzione di un governo di unità nazionale, infatti, era stato raggiunto già lo scorso 17 gennaio a Mosca, nel corso di consultazioni informali fra esponenti di Al Fatah, di Hamas e della Jihad islamica, seguito dall’annuncio dell’indizione di nuove elezioni.
Il Cremlino si muove ormai da anni nel tentativo di costruirsi una posizione da arbitro (ma anche da dominus) del Mediterraneo.
È innegabile il suo lavoro per la definizione di un nuovo assetto nell’intera regione. Mosca si è ritagliata un ruolo progressivo da protagonista alternando all’esperienza dei suoi diplomatici e all’abile tessitura di accordi politici impegni diretti sui campi di battaglia, in soccorso di paesi come Siria ed Egitto in risposta a una convergenza d’interessi reciproci.
Adesso, i frutti cominciano a vedersi. Il processo di riavvicinamento politico in Palestina, relativamente breve, è stato favorito non soltanto dal ritrovato dialogo tra Al Fatah e Hamas, che è solo una somma delle loro debolezze interne, ma anche da una serie di sviluppi internazionali che comprendono l’imminente vittoria delle forze sostenute da Mosca in Siria, che ridisegnerà i rapporti di forza in Medio Oriente, così come la Risoluzione 2334 delle Nazioni Unite, che ha condannato gli insediamenti israeliani.
E così pure dalla Conferenza di pace di Parigi, che ha dissertato circa la questione israelo-palestinese sbilanciandosi molto in favore di questi ultimi. Una preparazione del terreno che Mosca ha opportunamente favorito, proprio quando gli Stati Uniti stavano andando in direzione opposta. Se si considera poi che gli Stati Uniti hanno appena ufficializzato la loro uscita dall'Unesco il prossimo 31 dicembre (e presto li seguirà Israele) in polemica con l’inclusione della Palestina tra i membri, si comprende meglio dove tiri il vento diplomatico.
L’incognita principale nel processo di omogeneizzazione politica tra le due anime della Palestina, si annida invece nelle “piccole cose”: nella questione del disarmo dell’ala militare di Hamas, ad esempio. Una forza che a oggi conta qualcosa come 25mila uomini mediamente armati e dove si è già incagliato il processo di riconciliazione. Visto che il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha anticipato a mezzo stampa che non ha alcuna intenzione di smobilitare le sue "forze di resistenza".
Questa spia d’allarme non sorprende gli israeliani, da sempre scettici sulle reali intenzioni di entrambe le forze palestinesi, e di Hamas in particolare, considerato che né l’una né l’altra forza politica intendono riconoscere l’esistenza dello stato d’Israele.
Una grana in più per Egitto e Russia e un problema di non poco conto per la popolazione palestinese, che non ha più intenzione di essere strumentalizzata per logiche diverse dalla traiettoria della propria sussistenza.