Una risata ci libererà, proviamoci

L’Intelligenza artificiale non ha gran sense of humour. Ma la vera, buona notizia è che anche le nuove generazoni mostrano insofferenza verso il diluvio della tecnologia.

Avete presente Altan? Le sue vignette? «C’è l’incertezza del futuro», dice Cipputi. E il compagno gli risponde: «Godiamocela, perché quando diventa certezza sono cazzi». Oppure: «Ho perso il posto, Cipputi. Finalmente qualcosa a tempo indeterminato, compagno». E avete presente le vignette di Elle Kappa? «Le nostre idee non moriranno mai. Toccherà seppellirle vive». Oppure le due signore che parlano dei rispettivi consorti: «Mio marito va a escort», dice una. E l’altra: «Troppo caro. Mio marito va ancora a puttane». Oppure, se vogliamo andare sul classico, ricordate Gino Bramieri? «Che verbo è “non sarebbe dovuto nascere?”. Preservativo imperfetto». Oppure l’uomo che arriva alla stazione con le valigie e si ferma sui binari. «Scusi, dove lo prendo il treno per Pisa?». «Se non si sposta, diritto nella schiena».

Non so se qualcuno di queste battute vi ha strappato un sorriso. Lo spero. Altrimenti cercate qualcosa che sia in grado di farlo. Una battuta umoristica, una freddura, la performance del vostro comico preferito. Bene: la buona notizia è che l’Intelligenza artificiale non ce la fa. Per quanto perfetta, micidiale, spaventosamente efficace, per quanto capace di sostituirsi all’uomo in tutto e per tutto, per quanto abilissima nel creare dal nulla gesti, azioni, immagini e pensieri umani, l’Ia non riesce a far ridere. I ricercatori di Google l’hanno messa alla prova e come riferisce Il Sole 24 Ore «non è stata in grado di produrre nulla di stimolante, originale e soprattutto divertente». E questo è presto spiegato: «La scrittura creativa richiede di deviare dal senso comune, cosa che invece gli algoritmi inseguono». L’umorismo si basa sulla sorpresa, sulla rottura degli schemi, sul guizzo e sull’ambiguità della lingua. Sull’«effetto wow». Tutte cose che l’Intelligenza artificiale non ha. Quella umana sì.

Ci salverà Gino Bramieri, dunque? Sicuramente la battaglia è lunga. Quella dell’Intelligenza artificiale è la sfida più difficile che gli uomini si siano trovati ad affrontare nel lungo viaggio dell’innovazione tecnologica, proprio perché è la prima volta che le macchine non mirano semplicemente ad aiutare l’uomo ma a sostituirlo in tutto e per tutto. Mauro Crippa e Giuseppe Girgenti hanno scritto un bel libro Umano, poco umano che, partendo dall’esperienza della filosofia classica, suggerisce alcuni esercizi pratici di resistenza: bisogna ritornare a Platone, Aristotele, Sant’Agostino, dicono gli autori. E noi che siamo assai meno eruditi di loro, dopo aver letto la ricerca di Google sull’umorismo, aggiungiamo: perché non ritornare anche a Stanlio e Ollio? O a Cochi e Renato?

C’è poi un’altra buona notizia sul fronte, che ci è caro, della resistenza alla disumanizzazione tecnologica cui stiamo andando incontro. Si segnalano infatti piccoli ma crescenti gruppi di giovani che rinunciano agli smartphone per ritornare a telefonini vintage, modelli antichi che fanno solo chiamate e sms. Niente più connessione Internet, niente Facebook e Instagram, niente whatsapp e addio alla dittatura delle App. Il mercato se n’è già accorto, e oltre a riesumare antichi modelli (Motorola Razr o Nokia 3310) propone nuovi telefonini basic come il «Lightphone» (slogan: un telefono per umani) e il «Boring Phone» per «liberarsi degli effetti negativi della tecnologia». Lo racconta Giulio Silvano sul Foglio e anche questo, come Altan o Gino Bramieri, è un segnale di speranza: nel 2019 una giornalista del Guardian raccontò l’abbandono dell’iPhone con un celebre articolo in cui diceva che dopo qualche settimana si sentiva «più equilibrata, meno distratta e meno ansiosa». E si domandava: «Oggi possiamo ancora disconnetterci. Domani avremo ancora questo lusso?». Forse sì. Forse per poco. Ma ce l’abbiamo ancora.

Noto con piacere infatti che si moltiplicano le iniziative di questo tipo: c’è il piccolo imprenditore del Triveneto che inaugura la giornata senza telefonini in ufficio, c’è l’azienda che offre un premio di 10 mila euro per chi rinuncia allo smartphone un mese intero, crescono le rivendicazioni di «diritto alla disconnessione». Jonathan Haidt, psicologo e intellettuale, nonché nativo digitale, ha scritto un libro (The Anxious Generation) che è diventato un bestseller: racconta come i ragazzi della generazione Z, quelli nati dopo il 1996, soffrano più degli altri di ansia, depressione, autolesionismo. Racconta che la maggior parte di loro di fronte alla domanda: «Preferiresti un mondo in cui TikTok non è mai stato inventato?» risponde sì. L’Organizzazione per l’istruzione dell’Onu, dopo aver analizzato 200 sistemi scolastici del mondo, conclude che gli smartphone hanno un effetto negativo sul rendimento scolastico. In Italia il ministro Giuseppe Valditara procede con la loro eliminazione almeno fino alla terza media. Siamo ancora in tempo per evitare la catastrofe? «Poteva anche andare peggio», dice Cipputi. «No», gli risponde il suo compagno. Ma forse è proprio questo pessimismo totale, insieme però ironico e spiazzante, a darci una speranza. La tecnologia disumana sembra imbattibile. Ma una risata la seppellirà.

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